Una banana su sfondo bianco. In alto, a destra, la minuscola scritta “peel slowly and see“: sbuccia lentamente e guarda. La curiosità svela una rosea, “fallica” polpa. In basso, Andy Warhol stampato in corsivo. È lui il mentore e produttore di The Velvet Underground & Nico, long playing che sbuca dal sottosuolo di New York il 12 marzo 1967, mentre gli hippies della baia di San Francisco si radunano ai concerti dei Grateful Dead e dei Jefferson Airplane; e nel distretto di Height-Ashbury la Counterculture sboccia nella Summer of Love dell’acido lisergico e del suono dolce dei sitar indiani. Ma a NY non esistono ragazze con occhi caleidoscopici, né cieli di marmellata. C’è il buco d’eroina, il nichilismo intellettuale, l’irrazionale “bohémien”. La musica che si fa arte pura.

Ne sa qualcosa Warhol: da quando una sera di dicembre del 1965 s’è goduto nella penombra del Café Bizarre le aspre delizie del Velluto Sotterraneo. Che ora, su disco, ribadisce di non aver nulla a che spartire con l’odore dolciastro del Flower Power. The Velvet Underground. Intitolati come l’instant-book compilato nel 1963 da Michael Leigh (storie di sesso estremo, sadomasochismo, bondage) e finito nelle mani di Lou Reed (voce e chitarra solista), nerovestito come l’avanguardista gallese John Cale (viola elettrica, pianoforte, basso); Maureen Tucker, la batterista che somiglia a un ragazzino; Sterling Morrison (chitarra ritmica, basso), faccia da nerd. The Velvet Underground & Nico perché c’è il “bonus” (voluto da Warhol) della teutonica Christa Paffgen, in arte Nico, anagramma di Icon. Qualche battuta nella Dolce Vita di Federico Fellini, più che altro modella con la sorpresa d’una voce gelida e bellissima. Andy avrebbe voluto che la banana fosse impregnata di LSD e che gli hippies se ne andassero tutti a farsi fottere.

Il disco, moltiplicato nella 45th Anniversary Super Deluxe Edition per 6 Cd con versione stereo, mono, singoli, Chelsea Girl (l’album solista di Nico coi VU senza Moe Tucker ma con Jackson Browne), le Scepter Studios Sessions (25 aprile 1966), The Factory Rehearsals (3 gennaio 1966) e il concerto del 4 novembre 1966 alla Valleydale Ballroom di Columbus, Ohio, narra invece la realtà, spinge il rock negli anfratti della sperimentazione frullando genio poetico e “trash”, sadismo sonico e morbose dolcezze. Nico la “chanteuse”, accarezza il carillon di Sunday Morning per poi intonare Femme Fatale, All Tomorrow’s Parties, I’ll Be Your Mirror. Le fa da controcanto Lou Reed, che attende il pusher con “ventisei dollari in mano/all’altezza di Lexington 1-2-5” (I’m Waiting For The Man) per poi sublimare con Heroin il “viaggio” della disperazione: “Non so proprio dove vado/ma proverò a raggiungere il regno se ce la faccio/perché mi fa sentire un uomo/quando infilo l’ago in vena/ti dico poi che le cose non sono affatto le stesse/quando mi sto godendo la mia pera/e mi sento come il figlio di Gesù”. L’atroce poetica dei bassifondi sputa rock schiumante, rumorismo, viziose melodie. New York Stories in bianco e nero. Senza Peace. Senza Love. Senza Hippies.

The Velvet Underground & Nico (1967, Polydor)