Erano quasi le undici di una mattina di mezzo ottobre, senza sole e con una minaccia di pioggia torrenziale nell’aria troppo tersa sopra le colline. Portavo il mio completo color carta da zucchero, con camicia, cravatta e fazzolettino blu scuro, scarpe nere e calze nere di lana, con ‘baghette’ blu scuro. Ero ordinato, pulito, ben raso e compassato, e non mi importava che lo si notasse. Sembravo il figurino dell’investigatore privato elegante. Avevo appuntamento con quattro milioni di dollari” (Raymond Chandler, Il Grande Sonno, 1939). Un’eternità separa il romanziere hardboiled dal singer-songwriter Stan Ridgway. Uno spazio temporale interminabile, che riesce come per magìa a colmarsi nei ¾ d’ora dell’album The Big Heat. Dal Grande Sonno al Grande Caldo, ecco le 10 tracce più bollenti dei tanto chiacchierati anni 80.

Stan Ridgway

Messa in archivio nel 1983 l’avventura da leader nei Wall of Voodoo con la partecipazione allo US Festival, il grande  sottovalutato californiano (ben compreso invece in terra italiana, come Premio Tenco 2016 alla carriera insegna) si concentra sulla carriera solista: con Stewart Copeland dei Police compone Don’t Box Me In per la colonna sonora del film Rumble Fish, decrittando al meglio le atmosfere in bianco e nero che fanno da sfondo alla gang war narrata da Francis Ford Coppola e facendo intravedere il miracolo di The Big Heat (lapalissiano il riferimento all’omonima pellicola di Fritz Lang girata nel 1953), alchimìa di suoni “shakerati” con mestiere fra noir, elettronica, Johnny Cash ed Ennio Morricone. Sicchè il caratteristico timbro adenoidale di Ridgway scandisce il ritmo della title track, contrappuntato da un’armonica che sembra arrivare dal deserto del Mojave, film western di John Ford dietro l’angolo. La notturna, evocativa Walkin’ Home Alone è invece un viaggio di sola andata nella fumosa Città degli Angeli di L.A. Confidential, mentre Drive She Said – tesissima – è un poliziesco tascabile lungo 4 minuti e Salesman narra l’ennesima, disillusa storia a stelle e strisce infilata nelle small town e nelle blue highway, a un soffio da Nebraska di Bruce Springsteen.

In un susseguirsi di immagini, drum machine, schegge assimilabili a Peter Gabriel e ritmi dissonanti ecco il country epico di Camouflage (Ridgway mette a fuoco un reduce dal Vietnam, la lurida guerra e le ferite ancora sanguinanti nel ventre molle dell’America Reaganiana) e lo strumentale Rio Greyhound, più che degno epilogo “desertico”. The Big Heat, va ricordato, è stato oggetto nel 2012 di una reissue con l’aggiunta di 4 bonus tracks dove a spiccare è anzitutto Nadine, torrido rhythm & blues con tanto di fiati stile Stax che ribadisce il furore eclettico di Stan Ridgway, cult hero impossibile da scordare.

Stan Ridgway, The Big Heat (1985, I.R.S.)