Per gli Small Faces provo un misto di tenerezza e protezione. Forse perchè hanno scelto un nome (“piccole facce”) che sembra non voler disturbare i coetanei grossi calibri della British Invasion anni 60 – Rolling Stones, Beatles, Kinks, Who – o perché 3 su 4 (il cantante e chitarrista Steve Marriott, il bassista Ronnie Lane, il tastierista Ian McLagan) sono volati in cielo. Rimane, solitario, il batterista Kenney Jones.
Se La macchina del tempo di H. G. Wells da romanzo di fantasia divenisse realtà, non avrei dubbi: è al 1966 che vorrei tornare per dire grazie a questa favolosa band e poi esclamare: Hey boys! Non siete inferiori a nessuno!. Fra il 1965 e il 1968 il quartetto piazza la bellezza di 11 singoli nella Top 30, non si siede sugli allori e cambia stile a ogni piè sospinto partendo da Small Faces e proseguendo con From The Beginning, Small Faces, Ogden’s Nut Gone Flake e The Autumn Stone. Poi Marriott lascia il gruppo per fondare gli Humble Pie con Peter Frampton, mentre Jones e McLagan confluiscono all’alba degli anni 70 nei Faces insieme a Rod Stewart e a Ronnie Wood. Ma questa è un’altra storia.
Per un motivo o per l’altro, sono sinceramente affezionato a ogni Lp inciso dalla formazione londinese. Ma se devo citarne 1 in particolare dico Small Faces del 1966: lo sfrontato, aggressivo, a tratti violento disco del debutto; sorprendentemente capace di far intravedere nella miriade di suoni assordanti melodie struggenti che indicano in modo chiaro e netto come deve suonare una vera Mod Band (ma i 4 sarebbero stati comunque mod, anche se avessero fatto i benzinai o i tassisti) sviscerando fin da subito lo smisurato amore nei confronti della soul music e del rhythm & blues americani.
E allora fuoco alle polveri! Si parte con la fiammeggiante Shake di Sam Cooke, per proseguire con Come On Children dove Steve bianco-per-caso Marriott canta e urla come un ossesso («Anche se erano ragazzini, la voce di Steve aveva dentro un sacco di maturità», ha dichiarato Paul Weller) permettendo alla sua chitarra di dialogare con la sfavillante ritmica di Lane & Jones. È quindi il turno di You’d Better Believe, con McLagan a garantire col suo organo Hammond un elegantissimo tappeto sonoro.
Ma le sorprese non finiscono qui. Passato in gloria il primo singolo Whatcha Gonna Do About It, ecco You Need Loving che verrà mutuata dai Led Zeppelin in Whole Lotta Love; lo strumentale, ballabilissimo e spaccatimpani Own Up Time; una Sha-La-La-La-Lee da annoverare fra le più belle canzoni in assoluto del Beat; la struggente What’s A Matter Baby di Clyde Otis, inclusa nella 40th Anniversary Edition del 2006… In soldoni: Small Faces è il disco epocale per eccellenza, il tributo più sincero possibile alla black music, qualcosa di realmente unico e irripetitibile. È un album seminale, paragonabile a Never Mind The Bollocks dei Sex Pistols: senza nichilismo ma con una gran voglia di spassarsela. Ascoltatelo al massimo volume dichiarando guerra ai vicini di casa, ma soprattutto scoprite (o riscoprite) gli Small Faces, amateli e non dimenticatevi mai di loro. Perché la grande musica non muore mai. Sottolineo: mai.
Small Faces, Small Faces (1966, Decca)