Mentre fra il 1971 e il 1972 registra le canzoni destinate al suo 4° Lp, Sail Away, Randy Newman ha in testa un piano preciso. «Combinare i 3 elementi che avevano reso assolutamente fallimentari i miei album precedenti»: 1 disco con accompagnamento orchestrale, 1 con una band elettrica e un altro (dal vivo) per sola voce e pianoforte. Neanche questa volta il mercato reagirà in modo scomposto ed entusiasta (N° 163 negli Stati Uniti, N° 42 in Australia), anche perché rispetto agli altri piano men del periodo (l’ancora acerbo Billy Joel e il già lanciatissimo Elton John) il 28enne di Los Angeles sfodera una voce più ordinaria, quasi sgraziata, oltre a testi mordaci che non tutti sembrano essere disposti ad ascoltare. D’altra parte colleghi illustri ne resteranno folgorati — più di tutti Brian Wilson dei Beach Boys, che dichiarando imperituro amore per quell’Lp racconterà di avere trovato nei suoi solchi un’ancora di salvataggio momentaneo dalla depressione — mentre lui, nipote di 2 celebri e prestigiosi compositori di colonne sonore a Hollywood, si renderà conto di avere probabilmente realizzato il suo disco più compiuto, organico e ispirato. Insomma, il suo capolavoro.

Randy Newman in concerto alla Grumbles coffeehouse, Canada, 29/8/1972
© Keith Beaty/Toronto Star via Getty

Il retaggio hollywoodiano (che gli verrà molto utile in seguito) e il solido background sono evidenti in tutto l’album, mentre la produzione attenta ed equilibrata di Lenny Waronker e Russ Titelman, coppia di ferro della Warner/Reprise, assicura la cornice perfetta a canzoni che sembrano figlie appena un po’ degeneri della grande tradizione americana, soprattutto quando a interpretarle è un autore che dichiara di amare Gustav Mahler e Stephen Foster, George Gershwin e Fats Domino, i Beatles e Ray Charles, Scott Joplin e Carole King, ma che poi segue un percorso tutto suo. Evidente soprattutto se si presta attenzione alle parole, spesso beffarde e provocatorie, con cui Newman si diverte a smontare il Mito Americano e a prendere di petto argomenti delicati affrontandoli da prospettive inusuali. Come lo schiavismo, in quella title track che si sviluppa alla maniera di un canto marinaresco arrangiato per piano e ottoni e in cui l’autore indossa i panni di un cinico negriero, un imbonitore disonesto che ai suoi prigionieri africani prospetta una terra promessa dove ad attenderli ci sono angurie zuccherose e torte al grano saraceno, invece di serpenti velenosi e felini predatori.

Oppure la politica estera degli Stati Uniti, in una Political Science che fa venire in mente Il dottor Stranamore di Stanley Kubrick, e in cui il risentimento dell’americano medio nei confronti di un mondo esterno percepito come ostile e irriconoscente spinge verso la “soluzione finale”: l’uso di una bomba atomica destinata a radere al suolo il resto del mondo con la sola eccezione dell’Australia, dei suoi teneri canguri e del suo oceano perfetto per fare il surf (è una satira macabra e iperbolica, ma a parlarne in questi giorni vengono i brividi: e del resto, già nel 2017, Newman aveva tratteggiato in musica un caustico ritratto di Vladimir Putin). E ancora Dio e la religione, terreno minato in una nazione in cui prosperano i fondamentalisti della Bible Belt: He Gives Us All His Love dipinge una divinità apparentemente compassionevole e bonaria ma in realtà indifferente alle nostre sorti, che in God’s Song (That’s Why I Love Mankind) si mostra ancora più sprezzante e vendicativa (“l’uomo non significa nulla/per me vale meno del più modesto fiore di cactus/o del più umile albero di yucca”, fa recitare Newman al Supremo, per poi concludere: “Dovete essere pazzi a riporre fede in me/per questo amo l’umanità”).

Randy è spietato nel raffigurare le debolezze del genere umano così come quelle dei singoli individui, i freak e gli sfigati di cui l’America è piena; ma anche quelle dei cosiddetti vincenti: nel dixieland pigro e dinoccolato di Lonely At The Top, che avrebbe voluto ascoltare dalla voce di Frank Sinatra ma che The Voice restituì al mittente, canta la solitudine delle star e dei ricchi & famosi, come a dire che non c’è scampo per nessuno. Avrebbe potuto essere un successo, dato che affidate a voci più educate e adeguatamente ammorbidite negli arrangiamenti, le sue canzoni si sono spesso trasformate in hit. Anche quelle contenute in Sail Away, cominciando naturalmente dallo scheletrico midtempo pianistico You Can Leave Your Hat On che immensa fortuna portò a Joe Cocker quando il cantante di Sheffield ne incise una robusta e scintillante cover in stile r&b per la colonna sonora di 9 settimane e ½, trasformando in uno stereotipato classico da strip tease un pezzo sempre travisato e che fin dall’inizio provocò le rimostranze di qualche movimento femminista (non fosse che l’io narrante non è un irresistibile seduttore ma un nerd abbastanza disperato). Intanto la filastrocca fanciullesca e old time di Simon Smith And The Amazing Dancing Bear, scritta 5 anni prima, era già entrata in classifica in Inghilterra grazie alla versione di Alan Priceex Animals, mentre un altro cantante pop inglese, Billy J. Kramer, aveva pubblicato nel 1969 su 45 giri Dayton, Ohio – 1903, uno di quei quadretti d’epoca di cui Newman è un maestro e che (nostalgicamente? Ironicamente?) richiamano un piccolo mondo antico, garbato e gentile, che già 50 anni fa non esisteva più.

Nello stesso Stato nordorientale in prossimità dei Grandi Laghi è ambientata Burn On, ballata drammatica ma asciutta che rievoca il disastro ambientale che a fine anni 60 provocò incendi lungo il fiume Cuyahoga inquinato dagli smaltimenti dell’industria siderurgica locale; mentre è rigorosamente sudista il clima di Last Night I Had A Dream dove ad accendere il sound di colori blues è la magica slide di Ry Cooder (riconoscibile anche in You Can Leave Your Hat On), punta di diamante di un team di session men di primissimo ordine che include i batteristi Jim Keltner, Gene Parsons (Byrds) ed Earl Palmer; i bassisti Chris Ethridge, Wilton Felder e Jimmy Bond; Milt Holland alle percussioni e Abe Most al sax alto, mentre è lo stesso Titelman a imbracciare una chitarra dove e quando serve.

Newman sembra intenerirsi solo quando parla di affetti familiari: abbozzando in Old Man (uno slow che evidenzia quanto gli debbano certe ballate per piano e voce di Peter Gabriel) uno straziante tentativo di dialogo con un genitore che sta per spegnersi senza il conforto di una fede dipinta ancora una volta come illusoria; e incarnando, in Memo To My Son, il ruolo di un padre impacciato che al figlio neonato non sa come comunicare il suo affetto. Sono i momenti in cui Randy sembra togliersi la maschera e il trucco da attore; e in cui diventa più difficile fraintenderlo. Lui ci tiene sempre a sottolineare che in famiglia lo hanno abituato a considerare la musica come un lavoro e che non ha mai inteso cantare canzoni autobiografiche: credetegli ma fino a un certo punto, perché nel suo impagabile songwriting il cinismo sa convivere con l’empatia, il grottesco con una cruda, sincera rappresentazione della realtà. Ed è lì in mezzo che un grande autore rivela sempre molto di se stesso e dei suoi sentimenti.

Randy Newman, Sail Away (1972, Reprise)