Nel 1970, mentre Immigrant Song dei Led Zeppelin, Child In Time dei Deep Purple e Paranoid dei Black Sabbath esplodevano dagli altoparlanti dei giradischi e delle radio a transistor, ci voleva un certo coraggio per andare controcorrente, smorzando i toni e abbassando il volume in un disco dai suoni morbidi, vellutati e a tratti impalpabili, spesso cantato sottovoce e suonato in punta di dita.

Mescolare folk e jazz, blues e musica latina in un progetto sonoro distantissimo dall’hard rock, dal rock blues elettrico, dal nascente progressive e dal pop mainstream dell’epoca era la strana idea di 2 professionisti già rodati, Jon Mark (vero nome John Michael Burchell) e Johnny Almond: il primo, 27enne dalla voce eterea e sopraffino chitarrista fingerstyle, aveva incrociato più volte la strada di un altro virtuoso degli strumenti a corda, Alun Davies (poi braccio destro di Cat Stevens), distinguendosi anche come coproduttore e accompagnatore di Marianne Faithfull in studio e dal vivo; il secondo, era un eccellente sassofonista e flautista 24enne che s’era fatto le ossa in gruppi cardine dell’r&b revival come la Zoot Money’s Big Roll Band e l’Alan Price Set prima di mettersi alla guida di una sua formazione jazz rock, la Johnny Almond Music Machine.

Jon Mark e Johnny Almond

Si erano ritrovati insieme alla corte di John Mayall, che aveva impiegato entrambi nello spettacolare live The Turning Point e nell’album di studio Empty Rooms, avventure “jazz blues fusion” da cui il loro debutto, Mark-Almond, prende le distanze dando vita a una creatura completamente diversa, più sgusciante, polimorfa e mutevole. Ai 2 titolari del marchio, polistrumentisti che suonano anche basso e armonica (Mark), vibrafono (Almond) e percussioni assortite (tutti e 2), basta trovare un paio di musicisti sintonici e versatili come loro per concretizzare quello che hanno in mente: li trovano nel tastierista – ma anche flautista, chitarrista e percussionista – Tommy Eyre, già con la Grease Band di Joe Cocker (sua la celebre introduzione organistica alla cover di With A Little Help From My Friends), con la Aynsley Dunbar Retaliation e con i Juicy Lucy; e nel bassista (nonché percussionista e violoncellista) Roger Sutton, specialista del fretless senza tasti che permette di scivolare in libertà sulle corde ricavando sonorità inusitate dallo strumento. Non si preoccupano nemmeno di ingaggiare un batterista e proprio per questo ricevono una serie di porte in faccia finché in gioco non entra la Blue Thumb Records di Bob Krasnow e Tommy LiPuma, discografici dall’orecchio fino e disposti ad andare controcorrente.

La copertina originale di Mark-Almond

È la indie americana a dare alle stampe il debutto: enigmatico fin dalla copertina, che elenca 2 suite – sul lato A e B dell’Lp – mentre in verità la scaletta prevede 2 lunghi pezzi suddivisi in movimenti e 3 brani relativamente più brevi e omogenei. Si genera una certa confusione, ma poco importa: anzi, così diventa più facile abbandonarsi a un flusso di musica che scorre senza argini nell’arco di 40 minuti avvincenti e sorprendenti. Iniziano in sordina, i 4, con una sommessa preghiera gospel intitolata The Ghetto: un pianoforte e un lieve bisbiglio vocale che si aprono poi in un coro arioso e in un serrato dialogo tra un piano elettrico e un sax jazzato e notturno. È un incipit memorabile: l’ambientazione è esplicitamente newyorkese, il testo un ritratto di solitudine e di emarginazione che si carica di tinte più fosche e tragiche in Tramp And The Young Girl, storia di un vagabondo e di una giovane ragazza (“due tipi simili”, “che l’amore si è lasciato alle spalle”, recita il testo) che decidono di lasciarsi inghiottire dalle acque di un fiume gelido e fangoso. La voce è desolata, gli accordi discendenti, il tono struggente, ma la musica è talmente elegante e rarefatta da rendere più sopportabile persino un tema come il suicidio: vi si respira un’“aria solida”, sospesa, nebbiosa e invernale come in certe canzoni di John Martyn (con cui Eyre collaborerà in seguito).

Un tono sommesso e dolente, tra gospel e blues, avvolge anche il delicato tessuto della conclusiva Song For You, ma è soprattutto nelle 2 lunghe suite di The City (10 minuti e ½) e Love (quasi 11) che la band scioglie le briglie: Mark arpeggia delicatamente fra chitarre acustiche, classiche ed elettriche mentre i sax di Almond (l’intera gamma: soprano, alto, tenore e baritono) e i suoi flauti bassi svolazzano su agili tappeti ritmici in un alternarsi di pause, ripartenze, silenzi ed escalation sonore. The City è il lamento di un uomo che desidera fuggire dalla metropoli per ritrovare il contatto con la natura, preso nel mezzo di una contrapposizione dialettica fra erba e cemento, Grass And Concrete, prima di un forzato ritorno in taxi nella giungla d’asfalto di Brooklyn mentre il ritmo cool e rilassato di una bossa nova arricchita da un altro magistrale assolo di sassofono cede il passo a un incalzante crescendo in cui il basso di Sutton, dopo avere imitato il garrito di un gabbiano, irrompe potente, distorto e fragoroso con un effetto fuzz che accompagna gli impetuosi accordi di chitarra. Anche Love è giocata su cambi di ritmo e di atmosfera, fra una introduzione che mischia folk e classica (Renaissance), conga e percussioni latine, un liquido piano elettrico, un vibrafono jazzy, raffiche d’organo e un finale decisamente blues, Mark che tira la voce fino a strozzarsi prima di soffiare nell’armonica come un discepolo di Little Walter.

La busta interna dell’Lp

Qualcuno, a posteriori descriverà come un prototipo del miglior chillout questa fusion diafana e delicata che sembra scivolarti fra le dita ma che resta attaccata al cuore e alle orecchie: nessuno saprà più replicarla, neppure loro, dopo un 2° album (Mark-Almond II, con il grande batterista jazz di scuola mingusiana Dannie Richmond, a irrobustire la sezione ritmica) di una tacca inferiore e una caduta accidentale che a Mark provocherà nel 1972 l’amputazione di quasi tutto l’anulare sinistro. Il debutto resta il loro capolavoro, oscurato dai trend musicali del momento a dispetto delle critiche unanimemente positive e del discreto airplay radiofonico che la versione “edit” di The City si conquistò all’epoca nelle radio FM americane. Intanto Mark e Almond hanno lasciato questo mondo (Jon il febbraio scorso, Johnny nel 2009), e pare che il master originale sia andato distrutto nel grande incendio che nel 2008 ha polverizzato una parte degli archivi degli Universal Studios: ci restano, per fortuna, qualche ristampa su Cd ancora in circolazione e qualche vecchia copia in vinile, rintracciabile a prezzi ragionevoli sul mercato dell’usato. La cattiva stella sotto cui Mark-Almond sembra essere nato, continua a riflettere una luce intensa e vitale.

Mark-Almond (1970, Blue Thumb Records)