L’8 novembre del 1971 escono il 4° Lp dei Led Zeppelin e Stairway To Heaven, il suo “pièce de résistance” irreperibile come singolo poichè i ragazzi della band e il loro manager Peter Grant aborrivano i 45 giri e potevano permettersi, dall’alto della loro onnipotenza commerciale, d’infischiarsene delle regole auree del music business. Quegli 8 minuti e 2 secondi, introdotti dall’arpeggio di chitarra acustica di Jimmy Page e chiusi dalla voce a cappella di Robert Plant, sono rimasti poi scolpiti nella memoria collettiva come un’epifania miracolosa che lasciava sbalorditi ovunque la si ascoltasse la prima volta: dall’altoparlante di una radio FM (in America divenne il pezzo più richiesto dagli ascoltatori), o su una fonovaligia stereo a bassa fedeltà. C’era tutto il sapere degli Zeppelin e un nuovo senso d’avventura, in quella “mini suite” che chiudeva la prima facciata dell’album contraddistinto dall’etichetta rossa e verde della Atlantic. Un crescendo articolato in più movimenti, che dai delicati ricami madrigaleschi delle prime battute lasciava progressivamente spazio al fragore del rock elettrico intrecciando flauti e 12 corde, percussioni granitiche (l’entrata indimenticabile di John Bonham, dopo 4 minuti e 18 secondi) e un assolo di Page da antologia, simboli e allegorie d’origine medievale, un mondo arcano e misterioso in cui le foreste echeggiavano di risate e il pifferaio ti invitava a seguirlo badando bene a scegliere la strada giusta su cui incamminarsi.

Non c’è bisogno d’ascoltarla al contrario immaginando invocazioni nascoste a Satana (una vecchia leggenda che accompagna Stairway To Heaven) per farsi ammaliare dal fascino esoterico di un’irripetibile sinfonia rock a lenta maturazione, cresciuta poco per volta: la intro (scandalosamente simile a Taurus dei californiani Spirit) abbozzata da Page durante un soggiorno nello sperduto cottage gallese di Bron-yr-aur, il testo scritto in automatico da Plant una sera davanti al camino acceso di Headley Grange, un ex ospizio imboscato nella “countryside” dell’East Hampshire. In quella canzone (e in tutto il disco che gli ruotava attorno) i Led Zeppelin portavano a compimento 3 anni di vita tumultuosa e straordinaria. IV era il loro Aurora Consurgens, un trattato d’alchimìa che spiegava le forze paranormali generate dall’interplay di 4 musicisti nati per far musica insieme. Il blues supersonico del 1° album riviveva nella roboante rilettura di When The Levee Breaks, scritta da Memphis Minnie e Kansas Joe McCoy ai tempi delle inondazioni che nel 1927 devastarono il Mississippi. L’hard rock travolgente e dinamico di II scorreva nei riff sinuosi e concentrici di Black Dog, il pezzo di apertura del 33 giri che il bassista John Paul Jones aveva concepito come un complicato cubo di Rubick con ritmi a scansione variabile.

La musica dei Fifties, Elvis Presley e Little Richard, tornavano prepotenti in Rock And Roll, schiacciasassi e futuro “crowd pleaser” nato in 15 minuti d’improvvisazione di studio per rilassarsi fra una take e l’altra. I mandolini e il folk gentile di III si reincarnavano in Going To California, ode al Flower Power e alla Signora dei Canyon, Joni Mitchell, nonchè nella saga celtica di The Battle Of Evermore dove Plant duettava con la vocalist dei Fairport Convention Sandy Denny ispirandosi una volta ancora (lì, e nella straniata filastrocca di Misty Mountain Hop) al Signore degli Anelli e all’Hobbit di J.R.R. Tolkien. Mentre gli aromi indiani e marocchini che renderanno epocale Kashmir già insaporivano Four Sticks, un altro ritmo sgusciante fra i 5 e i 6 ottavi di cui Bonham riusciva a venire a capo solo utilizzando le 4 bacchette del titolo.

8 canzoni, nessun riempitivo, una varietà cromatica che si faceva beffe dei tanti critici snob che agli Zeppelin non perdonavano l’immensa popolarità e la predilezione per i suoni duri, i rintocchi sordi e implacabili del “martello degli dei“. Senza capire che quei 4 erano diversi, che Plant aveva nelle corde vocali non solo grida primordiali ma anche dolci sussurri; che Page era un Brunelleschi capace di progettare plastiche cattedrali di luci e ombre, di pieni e vuoti. Infatuato d’esoterismo e cultore della magia nera di Aleister Crowley, il chitarrista aveva voluto sulla busta interna del disco una riproduzione dell’Eremita dei Tarocchi e 4 rune celtiche a rappresentare ogni componente del gruppo. In studio di registrazione, era lui stesso uno stregone. Un rabdomante che, in tempi di tecnologia audio rudimentale e pre-informatica, sapeva scovare suoni nascosti posizionando accuratamente strumenti e microfoni, sfruttando con sapienza echi e riverberi ambientali. Sistemando la batteria di Bonham sotto l’androne delle scale di Headley Grange si inventò il drumming esplosivo di When The Levee Breaks, simile al passo di un mammuth che calpesta la terra facendone vibrare il sottosuolo. Un suono imitato da generazioni di batteristi e campionato infinite volte: dai Beastie Boys e da Björk, da Dr. Dre e Mike Oldfield, da Eminem e dai Massive Attack. Un’ironica nemesi, o forse una dolce vendetta, per i Led Zeppelin: sempre accusati (e non a torto) di saccheggiare senza troppi scrupoli Robert Johnson, Willie Dixon, Howlin’ Wolf, Albert King, Bukka White e gli altri maestri del blues.

I loro primi 4 album valgono tutti 5 stelle, ma IV è il gioiello della corona e coglie la band in uno stato di grazia irripetibile. Page, Plant, Jones e Bonham erano sul tetto del mondo ed esercitavano un potere assoluto sulla casa discografica (costretta ad accettare un disco senza titolo e nome del gruppo strillato in copertina) e sul pubblico, disposto a seguirli in un avventuroso viaggio spazio/temporale che dal Medioevo inglese portava alla Terra di Mezzo tolkeniana, dal Mississippi alla West Coast dei primi 70 e chissà dove altro ancora. Il tempo è stato gentile, con IV. La meraviglia e lo stupore di cui Plant cantava in Stairway To Heaven sono ancora lì, racchiusi in quei solchi. E il 4° album degli Zeppelin è ancora una lampada di Aladino, un potente talismano, un centro d’inesauribile energia.

Led Zeppelin, IV (1971, Atlantic)