A Laura Nyro si addiceva il nero. Neri i lunghi capelli, neri i vestiti. E neri gli sfondi di copertina del suo 2° album Eli And The Thirteenth Confession, in cui sulla sua pelle diafana spicca il rosso fiammante del rossetto. Eppure quello è un album ricco di colori e di profumi, anche in senso letterale: per volere della giovane artista, il grafico della Columbia aggiunge alle copie dell’Lp che il 13 marzo del 1968 arriva nei negozi, un foglio con i testi delle canzoni stampati con un inchiostro profumato il cui aroma resiste a decenni di distanza. Un tocco di charme e di eleganza in più per un disco che stregherà Todd Rundgren ed Elton John (e poi Phoebe Snow, Rickie Lee Jones, Tori Amos, Kate Bush) strappando commenti ammirati a Carole King, a Joni Mitchell e al grande compositore Stephen Sondheim.
Forse non conturbante, sofferto, notturno e introspettivo come il successivo New York Tendaberry (un disco in cui, come sottolinea la sua biografa Michelle Kort, il produttore Roy Halee riuscì a «registrare il suono del silenzio»), sicuramente più estroverso, fantasmagorico e prodigo di hit (per altri artisti: la natura umorale, tormentata e fragile di Laura le impediva di essere una pop star). Snobbato dalle radio, accolto con favore ma anche con qualche perplessità dalla critica contemporanea (su Rolling Stone il futuro mentore di Bruce Springsteen, Jon Landau, si augurava per le sue future pubblicazioni più autodisciplina e più controllo), troppo personale, irregolare e anticonformista per piacere a tutti. È un turbine sonoro, una tempesta ormonale, un febbrile diario in cui Laura (vero cognome Nigro, sangue italiano ed ebreo-russo nelle vene) scioglie le briglie alla fantasia, porta in superficie le sue angosce profonde e le sue visioni paradisiache, incanalando tutta la musica e l’immaginario coltivato in un’adolescenza precoce vissuta nel Bronx.
Laura Nyro (1947-1997)
Figlia di un trombettista professionista e di una bibliotecaria appassionata di musica classica, ama il jazz e adora le parole, fin da piccola canta il doo wop agli angoli delle strade e nelle stazioni del metrò, assorbe come una spugna il soul della Motown che sente alla radio e i suoni che nascono a pochi chilometri da casa sua, nei teatri di Broadway dove vanno in scena i grandi musical e nei cubicoli del Brill Building dove Carole King e Gerry Goffin, Burt Bacharach e Hal David, Doc Pomus e Mort Shuman, Ellie Greenwich e Jeff Barry scrivono, cantano e strimpellano tutto il giorno sui tasti dei pianoforti inventando il nuovo, grande pop americano. Un animo sensibilissimo e una mente che non ragiona in termini ortodossi elaborano e miscelano quel composito background comprimendolo in canzoni di 3 o 4 minuti che faticano ad arginare tutta quella straripante esuberanza, espressioni di un nuovo linguaggio musicale e poetico che segue un suo ritmo interiore e imprevedibile, tra accelerazioni e rallentamenti, ballate e uptempo dai bpm impazziti con cui i programmatori radiofonici non possono venire a patti.
L’anno prima, per quanto acerbo, timido e addomesticato, More Than A New Discovery (su etichetta Verve/Folkways) aveva mantenuto le promesse del titolo presentando al mondo un talento in fiore e un mazzo di canzoni che Blood, Sweat & Tears, 5th Dimension e Barbra Streisand avrebbero portato nelle classifiche americane ripagando la Nyro e il suo manager/mentore David Geffen della decisione lungimirante di fondare una propria società di edizioni musicali che frutta subito royalty e incassi sostanziosi. Il passo successivo è la firma con la Columbia di Clive Davis di un nuovo contratto discografico che garantisce alla autrice e interprete poco più che 20enne assoluta autonomia creativa. L’uomo giusto al posto giusto, per dare forma concreta ai suoi sogni in technicolor e alle sue visioni sinestetiche in cui suoni e colori si confondono, si chiama Charlie Calello, 29enne arrangiatore dal tocco magico che ha familiarità con la Top 40 grazie a una serie di novelty hits e soprattutto alle collaborazioni con i Four Seasons di Dawn (Go Away) e Rag Doll.
La cantautrice newyorkese con il produttore discografico David Geffen, 1968
Un altro talento ambizioso di origini italiane, un altro musicista senza frontiere o preconcetti che scoppia in lacrime quando, una sera dopo cena, Laura spegne le luci e accende le candele in salotto, si siede al pianoforte e gli fa ascoltare tutte le canzoni che intende registrare per il nuovo disco. Piano e voce sono l’essenza della sua musica: piano e voci, anzi, perché approfittando dei nuovi registratori 8 piste in dotazione agli studi della Columbia Laura sovraincide cori, armonizzazioni e parti vocali che sfruttano il suo timbro da soprano e la sua fantastica estensione vocale per avventurarsi in spericolate arrampicate sul pentagramma. Sono già canzoni fatte e finite, ammette Calello, che sa però avvolgerle in sgargianti tessuti di strumenti rock, ottoni e archi convocando in studio tra il gennaio e il febbraio del ’68 un dream team di musicisti che comprende il pianista r&b Paul Griffin, i batteristi Artie Schroeck e Buddy Saltzman, il bassista Chuck Rainey, i chitarristi Ralph Casale e Hugh McCracken e grandi jazzisti quali il flautista e sassofonista Joe Farrell, il sax tenore Zoot Sims e i trombettisti Bernie Glow e Mel Davis, idoli di papà Lou Nigro che fa capolino durante le registrazioni.
Non è una passeggiata, il lavoro in studio, perché Laura passa in un attimo dall’euforia alla depressione, dall’estasi per quel che riascolta in cuffia alla disperazione che prova quando pensa di non avere catturato lo spirito della canzone, redarguita e bacchettata da Geffen per tutto il tempo prezioso che spreca in studio mettendosi a fumare giganteschi joint invece di concentrarsi sulla performance. La Nyro è insicura cronica ma anche una perfezionista che toglie e aggiunge, rifinisce e ritocca, disfa e ricama sulla sua tela di Penelope fino allo sfinimento (il mix finale sarà pronto 5 ore prima soltanto dell’appuntamento con lo staff della casa discografica e la stampa per l’ascolto in anteprima). Alla fine l’album costerà 36.000 $, più del doppio di un normale disco pop dei tempi, il direttore finanziario della Columbia andrà su tutte le furie e a pagarne le conseguenze sarà Calello, licenziato in tronco e mai più richiamato in servizio.
Il retro copertina di Eli And The Thirteenth Confession
I sessionmen la adorano comunque, Laura, e nessuno potrà evitare di sorridere e di commuoversi quando ascolterà le 13 “confessioni” del disco, un ottovolante di musica e di emozioni che inizia a spron battuto con i ritmi schiocca dita di Luckie e di Lu: fiati in abito da sera, energia che sprizza da tutti i pori, fermate e ripartenze che lasciano a bocca aperta. Laura celebra l’amore romantico e il sesso (argomento inconsueto e quasi tabù, nei dischi pop di allora) ma canta anche di turbamenti giovanili, di relazioni tossiche, di sentimenti lacerati e di droga, lei giovane ragazza newyorkese che avventurandosi per strada ha già conosciuto la vita vera.
Le luci si abbassano e l’umore si fa dark tra le chitarre taglienti e il blues metropolitano di Poverty Train, un ammonimento da brividi sulle lusinghe mortali della “dolce cocaina” e delle droghe pesanti (che Farrell, dice Laura, trasforma con la sua sottile ragnatela di flauti «in una specie di Alice nel paese delle meraviglie»), e nel lamento sensuale e notturno di Lonely Women, Simms carezzevole e vellutato al sax. Femminista forse ancor prima di saperlo, la Nyro ha sempre la donna al centro del suo universo poetico: in Woman’s Blues, una intro ombrosa e delicata che sfocia poi in un irresistibile r&b ritmato e funkeggiante, e in Emmie, una delle più dolci e sognanti ballate in catalogo, poetica ode all’eterno femminino che paragona la sua protagonista a una “neve naturale” e a un “mare vacillante” (Laura la amerà fino alla fine, proponendola sempre in concerto).
In Timer, in Once It Was Alright (Farmer Joe), in December’s Boudoir (il pezzo più lungo, ma entro i limiti dei 5 minuti) osa ancora di più, disegnando coraggiose mini-suite, musical tascabili e stravaganti tradotti in un esperanto musicale che dal jazz trae l’inclinazione a seguire l’onda e a divagare senza preoccuparsi troppo – o non preoccupandosi affatto – di strutture, strofe, ritornelli, tempi e battute. Negli ultimi solchi del vinile, The Confession si appende di nuovo al ritmo della Big Apple e ricorda che al di là del suo linguaggio immaginifico e a volte criptico la Nyro in questo disco svela molto di se stessa e forse anche l’inconfessabile («Ascoltandolo, mia madre verrà a sapere molte cose di me»).
Lo fa anche nei brani più celebri, Sweet Blindness e Stoned Soul Picnic, 2 grandi successi che i 5th Dimension adattano al mainstream smussandone gli angoli e stabilizzandone il tempo: la prima un’ode spassionata all’ebbrezza dello stordimento alcolico che cita Count Basie in un dinamico arrangiamento ricco di ottoni, la seconda un radioso e irresistibile soul pop che celebra un pomeriggio nella natura fra “treni di fiori sbocciati” e “treni di musica”, il torpido e dolce stupore provocato dalla marijuana e parole onomatopeiche inventate sul momento (quel “surry” ripetuto nel finale accelerato): c’è tutta la Nyro più estatica ed estroversa in questa magica capsula di meno di 4 minuti, tutta la sua inebriante e originalissima fusione di stili sintetizzata in un pezzo che Steve Katz dei Blues Project proporrà, scherzosamente ma non troppo, di adottare come inno nazionale americano.
E poi c’è Eli’s Comin’ (N° 10 negli Stati Uniti nella versione dei Three Dog Night), un puzzle sonoro nel cui testo la Nyro avverte le ragazze di “nascondere il cuore” davanti a un uomo seducente e pericoloso arrivato in città, cantato ad ali spiegate e orchestrato da Calello nel suo arrangiamento più sorprendente, ricalcato in parte su quello da lui stesso ideato tempo prima per The Name Game di Shirley Ellis: «Ai tromboni, alle trombe, al sax baritono e a basso e batteria feci suonare altrettanti ritmi diversi», racconterà in seguito. «Allora non scrivevo arrangiamenti, scrivevo dischi». Saranno tanti a restare rapiti, incantati, suggestionati da Eli, ma non il grande pubblico. Protagonista di una breve performance, l’anno prima, al Monterey Festival con una band raffazzonata e un’angelica aletta attaccata al vestito, Laura – joint e LSD a parte, provato e poi accantonato – non è molto in sintonìa con la cultura hippie di quegli anni anche se apprezza (non ricambiata) la compagna di scuderia Janis Joplin.
I richiami a Broadway e al Brill Building, la vernice orchestrale delle sue canzoni moderne ma radicate nel pop più classico dai 40 ai 60, suonano strani e démodé a chi allora ascolta i suoni acidi e le chitarre in distorsione della psichedelìa. Il disco è uno sleeper che pian piano vende la rispettabile ma non eclatante cifra di 125.000 copie e che però lascia subito un segno destinato a ingigantirsi nei decenni successivi. Il seme è gettato e le anime più artistiche, sensibili e cool ne sono subito scosse: già nel luglio del 1968, e proprio agli antipodi culturali e geografici della sua amatissima New York, il critico e scrittore Digby Diehl si trova ad annotare che “l’album più ascoltato a Los Angeles, radio a parte, sembra essere oggi Eli And The Thirteenth Confession”.
Laura Nyro, Eli And The Thirteenth Confession (1968, Columbia Records)