Tutta colpa di quel sibilo fallimentare intitolato Metal Machine Music. Dannata presunzione. Nel 1975, reduce dai fasti glam rock di Transformer e dal decadente cinismo di Berlin, Lou Reed viene citato in giudizio da un manager discografico e dal fratello produttore. La colpa: aver inciso e osato pubblicare quel maledetto ellepì saturo di feedbacks, tolto dai negozi dopo sole 3 settimane e una debordante quantità di resi. Lou si ritrova nudo: senza dollari né chitarre. Gliele hanno portate via i roadies, che da una vita non vedono lo straccio d’un quattrino. È indebitato con tutti, sindacato dei musicisti compreso. Da 5 anni non paga le tasse, il telefono ormai non squilla più e i fans gli stanno voltando le spalle. La RCA lo sistema frettolosamente in un albergo, prima di decidere se annullare o meno il contratto discografico. Ken Glancy, il presidente della major, fa giurare a Lou che non inciderà un secondo Metal Machine Music. Se suicidio artistico dovrà essere, sia almeno onorevole. In cambio, gli propone di scegliersi uno studio d’incisione e inventarsi un disco rock. Lou obbedisce, arruola Bob Kulick (chitarra), Bruce Yaw (basso), Michael Suchorsky (batteria) e al Mediasound di New York realizza Coney Island Baby. Il titolo, presumibilmente, si rifà all’omonimo brano doo wop inciso dagli Excellents nel ’62. Un bambino di Coney Island. Come Lewis Allan Reed, che è nato a Brooklyn. Nel ’76, nessuno osa togliere l’album dagli scaffali.

Procuratevi a tutti i costi la 30th Anniversary Deluxe Edition di questa meraviglia. Ci sono 6 canzoni in più, che si aggiungono alle originarie 8 intonate da Lou, per una volta sublime crooner dei bassifondi. Roba buona, di razza, impeccabile nella sua essenzialità: Coney Island Baby, The Gift e She’s My Best Friend sono melodie capaci d’arpionarti per sempre il cuore, mentre Ooohhh Baby è pura accelerazione rock & roll (per la gioia di Ken, discografico scacciaguai). E Kicks? Caos, ma lucido e ragionato. Nervature “black” e una nostalgia dei Velvet Underground che si fa ancora più palpabile quando Doug Yule (l’ultimo chitarrista del gruppo) si mette a suonare nelle versioni alternative e “sporche” di Crazy Feeling, Coney Island Baby e She’s My Best Friend, memorabili inediti che si aggiungono a Nowhere At All, Downtown Dirt e Leave Me Alone: pezzi di rock screpolato dal blues, peraltro già presenti nell’introvabile box Between Thought And Expression – The Lou Reed Anthology del ’92. Lou Reed, nel ‘75, se l’è davvero vista brutta. Ma se Metal Machine Music non fosse finito al macero, Coney Island Baby non sarebbe mai nato.

Lou Reed, Coney Island Baby (1976, RCA)

Lou Reed by Mick Rock, Coney Island Baby photo shoot (1975)