Cos’è rimasto dello scintillìo degli Anni ’70? Di quella filosofia deliziosamente eccentrica? Una sola sillaba: Glam. Contrazione di Glamour. E la memoria corre a un mondo pansessuale, sfarzoso, eccentrico, trasgressivo. Il Glam inglese (tanto) e quello americano (col contagocce), per quanto mi riguarda li scopro nel 1972, quattordicenne, partendo dal Rock. Le pagine del settimanale Ciao 2001 mi svelano un clown da film horror che si esibisce sul palco trastullandosi con un serpente boa. È Vincent Furnier, di Detroit, in arte Alice Cooper. Compro School’s Out, ellepì che ancora oggi mi fa venire i brividi dalla goduria. Poi leggo d’un alieno dall’indecifrabile DNA sessuale: David Bowie, al secolo Robert Jones, londinese. Acquisto The Rise And Fall Of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars, capolavoro assoluto. Il Glam Rock è così: ti appare all’improvviso, ti prende a schiaffi, ti bacia in bocca e tu gli prometti che non ascolterai nient’altro al di fuori di lui. Metto le mani su The Slider e poi sul disco precedente dei T. Rex, Electric Warrior, che mi rivela essere stato Marc Bolan l’inventore del Glam. Nel ’72 (annus mirabilis!) mi procuro Roxy Music, All The Young Dudes dei proletari Mott The Hoople e Transformer di Lou Reed, che un battito di ciglia prima capeggiava i Velvet Underground. L’anno successivo: The Human Menagerie dei cameristici Cockney Rebel, These Foolish Things di un impomatato Bryan Ferry in temporanea vacanza dai Roxy Music, Raw Power del venefico Iggy Pop e dei suoi Stooges, New York Dolls dell’omonimo, “pittato” quintetto. L’anno dopo ancora: Kimono My House e Propaganda degli Sparks che strizzano l’occhio al Kabarett berlinese Anni ‘30, Here Come The Warm Jets e Taking Tiger Mountain (By Strategy) di Brian Eno, stratega elettronico in boa di struzzo… Mi entusiasmano ancora, quei suoni cabarettistico/rockettari eseguiti da narcisistici “performers” in pantaloni a zampa d’elefante, paillettes, zatteroni e mascara dalla testa ai piedi.
È glamour hollywoodiano in versione “trash”, ma anche (e soprattutto) voglia spasmodica d’essere dandy come succedeva nel 19° secolo, com’era successo a Oscar Wilde. S’intitola All The Young Dudes (Tutti i Giovani Damerini) l’inno del movimento scritto da Bowie e regalato ai Mott The Hoople. E allora pollice verso per Gary Glitter, Sweet, Slade e Suzi Quatro, che per un verso o per l’altro si atteggiano a “glammers” ma non sono che paccottiglia. «Oltre che uno stile è un modo di vivere, l’espressione di una sensibilità» ha sottolineato Darren Pih, curatore della mostra Glam! The Performance of Style in svolgimento alla Tate di Liverpool. Ha vissuto poco, il Glam. Dal 1971 al 1975, in concomitanza con l’album proto-punk dei Tubes, abbracciando “high” e “low culture”, giocando con l’identità e le definizioni di “gender”. Dopo aver cavalcato nel ’72 il primo Gay Pride londinese, si dissolve con l’avvento della conservatrice Margaret Thatcher (nel Regno Unito) e del repubblicano Gerald Ford (in America). Ma lascia dietro di sé, oltre agli eccessi caricaturali e al vizioso humour, un’immortale scia estetica che assembla pop music, moda e arti plastiche ben documentate con video, pitture, fotografie e installazioni nelle 7 stanze intitolate Art as Life, Glam Mania, Artifice and Eroticism, The Glamour Factory, Masquerade, Transformer e Amplified Vision.
Tutto ha inizio al Royal College of Art di Londra, quando David Hockney ritrae in Mr. and Mrs Clark and Percy, 1970-1971 lo stilista Ossie Clark, sua moglie Celia Birtwell e il loro gatto focalizzando in maniera emblematica la neonata generazione “glam”. E mentre il futuro “leader” dei Roxy Music Bryan Ferry impara a dipingere sotto la guida dell’artista Pop Richard Hamilton, ideatore della copertina del White Album dei Beatles e della rutilante serie di “collages” modaioli intitolati Fashion Plate, Gilbert & George preannunciano la teatralità del Glam mettendosi in posa su un tavolo a mo’ di sculture viventi, coi volti verniciati d’oro. E se in America James Lee Bryars si veste di lamè per inscenare la propria morte “kitsch”, è Andy Warhol a dettare le regole (proibite) del gioco circondandosi alla Factory di “drag queens” come Candy Darling, Holly Woodlawn e Jackie Curtis, per poi tornare sul luogo del delitto, nel 1975, con le 10 serigrafie Ladies and Gentlemen che ritraggono altrettanti travestiti neri. In un vorticoso gioco di rimbalzi “camp”, fra Londra e New York, l’installazione Celebration? Real Life Revisited di Marc Camille Chaimowicz (tra i pezzi forti della retrospettiva) fatta di fiori appassiti, specchi e luci stroboscopiche, sfoggia come colonna sonora l’efebico repertorio di David Bowie. Cindy Sherman, invece, si fotografa mutando la propria identità in puttana e casalinga disperata, mentre David Lamelas esplora in Rockstar (Character Appropriation) le fantasie dell’essere protagonista del Glam. Allen Jones, dal canto suo, scolpisce la Chair and Table trasformando feticisticamente la figura femminile in complemento d’arredo; Guy Burdin, in modo altrettanto feticista, si lascia ispirare dal Surrealismo di Man Ray per le sue foto sensuali e provocatorie; Jack Smith punta sull’essere androgino (peculiarità dello spirito “glam”) in scatti e films ambientati in contesti kitsch/orientalisti; Ulay si ritrae con la Polaroid truccato metà uomo e metà donna; la femminista Judy Chicago, accarezzando l’idea di mutare sesso, si mette in posa in tenuta da boxeur. E se Eleanor Antin indossa per The King abiti maschili con lo scopo di sondare le molteplici possibilità del travestitismo, un video di Katharina Sieverding proietta una sequenza di volti dall’aspetto incerto, fra maschile e femminile. S’intitola, guarda caso, Transformer: come l’album di Lou Reed. Quello con Walk On The Wild Side, canzone-feticcio delle infinite sfaccettature del Glam.
Glam!
The Performance of Style
Fino al 12 maggio 2013, Tate Liverpool, Albert Dock, Liverpool Waterfront
tel. 0044-151-7027400
Catalogo Tate Publishing, £ 24.99
Foto: Terry O’Neill, David Bowie, 1974, National Portrait Galler
Peter Hujar, Candy Darling on her Deathbed, 1974, © The Peter Hujar Archive, LLC; courtesy of Pace/MacGill Gallery, New York
Richard Hamilton, Fashion Plate, 1969-70, © The estate of Richard Hamilton