Il mio ricordo di Franco Battiato risale all’intervista pubblicata sul settimanale Liberal del 28 ottobre 1999. Era appena uscito l’album di cover intitolato FLEURs, e da Jacques Brel fino ai Rolling Stones il cantautore siciliano mi raccontò la sua deliziosa enciclopedia di canzoni sottotitolata “esempi affini di scritture e simili”.  

È appena trascorso un anno, eppure Franco Battiato ha già messo in archivio le lacerazioni rock dell’album Gommalacca, quel cortocircuito elettrico/elettronico figlio del nostro fantascientifico presente che gli ha meritato il Premio Tenco. Una retromarcia, un rapidissimo “clic”: le luci si affievoliscono, le atmosfere musicali riscoprono voglie di struggenti dolcezze ed ecco giungere il momento di rifugiarsi nella memoria. Il Battiato di fine ’99 è un sorprendente crooner, l’interprete d’eccezione di una deliziosa enciclopedia di canzoni intitolata FLEURs. Brani altrui rivisitati e respirati con affetto sincero, frammenti del passato firmati Fabrizio De André, Sergio Endrigo, Jacques Brel, Charles Trenet, Charles Aznavour, The Rolling Stones. L’artista siciliano ha registrato questi classici nell’ascetica quiete della villa di Milo, ai piedi dell’Etna, quindi li ha presentati dal vivo lo scorso 9 ottobre alla Sala Nervi in Vaticano come testimonial di TeleFood, l’iniziativa promossa dalla FAO per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’eterno problema della fame nel mondo.

Bussare alla porta del repertorio altrui è senza dubbio gratificante, ma talvolta si risolve in un comodo escamotage utile a mascherare un temporaneo “blocco del cantautore”…
«Non è il mio caso. Ho voluto per una volta sbarazzarmi dal peso di dover comporre qualcosa di nuovo e ho afferrato l’aspetto gioioso dell’interpretare le canzoni che più ho amato».

Sarebbe stato più facile, come normalmente accade a chi decide di fare cover, accessoriare i brani con arrangiamenti commerciali se non addirittura volgarizzarli con suoni campionati. Al contrario, lei ha scelto un percorso di rilettura classico, baciato dalla leggerezza e dalla giocosità tipiche del caffè-concerto.
«Ho scelto di farmi accompagnare da un quartetto d’archi e dal pianoforte per poter rientrare in una dimensione liederistica. Nel 1991, infatti, l’album Come un cammello in una grondaia mi fece indossare gli abiti dell’interprete “leggero” che si misurava coi lieder romantici di Beethoven, Brahms, Wagner e Martin, mentre in FLEURs c’è il cantante che rilegge brani di musica leggera in modo classico».

A quando risale l’ipotesi di questo tuffo nel passato?
«Non è un’idea recente. Il progetto ha cominciato a prendere forma in occasione di un concerto a Catania che non avevo voglia di affrontare. Gli organizzatori insistettero e io decisi di fare un compromesso: avrei interpretato canzoni non mie. Quella sera, la risposta del pubblico fu particolarmente calorosa e incoraggiante, il che mi fece venir voglia di ripetere l’esperimento in altre 2 esibizioni, questa volta a Siviglia. Alla fine, raccogliere quelle cover dal palcoscenico e portarle in sala d’incisione è stato un procedimento logico e naturale».

Possiamo dire che attraverso le sue passioni musicali ha voluto ripercorrere uno spicchio di Novecento?
«Direi piuttosto che ho ripreso fiato, come quegli innamorati che danno un bacio alle loro amate prima di gettarsi di nuovo nella mischia senza sapere se ne usciranno vivi. Il mio prossimo disco potrebbe essere un’avventura pericolosa, perché mi considero un musicista interiormente spericolato. Se perdessi dall’oggi al domani tutto il pubblico non farei una piega; e avere la certezza che potrei smettere all’improvviso senza alcun rimpianto, mi dà un gran senso di libertà. Non sono fra quelli che avvertono brividi da fine secolo: per me il prossimo sarà un Capodanno come tutti gli altri, con i soliti buoni propositi collettivi che non verranno mantenuti. Per rendere ancora più chiaro il concetto: quando stavo registrando FLEURs c’era l’eclisse, che in tutta sincerità mi ha lasciato indifferente».

FLEURs rimanda a Baudelaire e a certe atmosfere decadenti…
«Senza dubbio. Inizialmente avevo pensato di intitolarlo Les fleurs du mal, ma poi ho lasciato solo “fiori” senza sottintesi maudit, poiché ritengo che alcuni brani profumino intensamente di gelsomino».

Fabrizio De André e Sergio Endrigo, con 2 canzoni a testa, sono stati in qualche modo privilegiati dalle sue scelte.
«Il miglior De André è a mio giudizio racchiuso in Amore che vieni, amore che vai e nella Canzone del perduto amore. Negli anni 60 mi innamorai perdutamente di questi gioielli: ero agli inizi della mia carriera quando mi trasferii a Milano; e nell’appartamento che presi in affitto quelle canzoni mi aiutarono a superare i momenti di solitudine. Già allora interpretavo nelle balere brani di altri, pregando tutte le sere che la gente si mettesse a ballare. Per quanto riguarda invece Endrigo, mi sono preoccupato in un certo senso di rendergli giustizia sottraendolo allo stereotipo “sanremese” e restituendogli quello spessore cantautorale che andrebbe a ogni costo rivalutato».

Mentre non ha certo bisogno di rivalutazioni Era de maggio
«L’ho interpretata per la prima volta in televisione al Pippo Chennedy Show, eliminando tracce d’enfasi retorica per renderla più pura, incontaminata. Nei giorni successivi ricevetti telefonate da esponenti della cultura napoletana che si complimentavano per la bellezza di quell’esecuzione. Tutti quegli elogi mi hanno fatto enormemente piacere, anche se non pensavo di meritarmeli».

Poi ha scelto il repertorio francese di Brel (La chanson des vieux amants), Aznavour (Ed io tra di voi) e Trenet (Que reste-t-il de nos amours) soffermandosi sull’inusualità di J’entends siffler le train, un successo anni 60 di Richard Anthony.
«Al Brel compositore regalo un 10 con lode, ma il voto si abbassa se penso ai guai combinati dall’arrangiatore, che per soddisfare le sue velleità jazz gli rovinò alcuni capolavori come Ne me quitte pas e proprio La chanson des vieux amants, alla quale ho cercato di restituire il maltolto, cioè l’originaria impeccabilità melodica. Aznavour l’ho invece scelto quasi per scherzo: mi occorreva una canzone “frou frou” e ho pensato a Ed io tra di voi. Cantandola ho scoperto quanto sia meravigliosa e lo scherzo si è trasformato in una cosa seria. Anche J’entends siffler le train, che in origine era un pezzo americano “francesizzato”, ha tutti gli ingredienti per essere riscoperto».

Merita un discorso a parte Que reste-t-il de nos amours di Charles Trenet, con gli inediti versi dello scrittore Gesualdo Bufalino.
«Alcuni anni fa mi mandò il testo invitandomi a leggerlo e ad esprimere la mia opinione in proposito. Non sapevo che avesse tradotto questa canzone: mi misi al pianoforte, la interpretai e gli inviai una cassetta. Gesualdo la apprezzò a tal punto che la fece trasmettere durante un’intervista radiofonica. Così mi è sembrato doveroso reinciderla e inserirla nell’album».

Il rock, invece, viene la lei esaminato con Ruby Tuesday dei Rolling Stones.
«Un brano splendido che nobilitò l’album Between The Buttons del 1967. La loro versione era già di per sé classicheggiante, con quel pianoforte a sottolineare l’intera esecuzione. La mia sfida è stata quella di modificare l’arrangiamento con l’impiego degli archi».

Come mai non ha scelto i Beatles?
«Perché sono inflazionati. Che senso avrebbe avuto interpretare per l’ennesima volta Yesterday, Michelle o Let It Be? Avrei forse dovuto scegliere una loro canzone poco conosciuta (ammesso che ne esistano, di brani beatlesiani “marginali”) ma la ricerca sarebbe stata troppo laboriosa».

Medievale è invece una composizione inedita.
«Non esattamente. L’avevo scritta per Gli Shopenhauer, un lavoro teatrale di Manlio Sgalambro da me diretto. Non ho fatto altro che riprenderla mantenendone invariato il testo».

Il secondo brano da lei composto, Invito al viaggio, è l’unico flash elettronico di FLEUR’s, in chiara antitesi con gli altri brani…
«È un contrasto che avrebbe potuto essere ancora più netto. Quando ho registrato i provini casalinghi delle canzoni, Invito al viaggio seguiva Amore che vieni, amore che vai suscitando una sensazione di straniamento talmente forte da farmi decidere di inserirlo in chiusura dell’album. È nato come una libera improvvisazione ed è rimasto tale».

Cosa ricorda del periodo sperimentale di Fetus e Pollution?
«Erano tentativi spudorati di elaborare musica. Il contatto con l’elettronica mi scatenò dentro una febbre creativa: percepivo fisicamente l’impatto di una nuova era del suono. Con Fetus pedinai le dottrine filosofiche di Aldous Huxley e il concetto mistico di una regressione fetale verso un “mondo nuovo”. Con Pollution, invece, visualizzai un’ipotesi futuribile attraverso il 31 dicembre 1999. Credo che i miei anni 70 debbano essere divisi in 2 parti: la prima, scandita più da mosse intenzionali che da cose memorabili (anche se per Giovanni Lindo Ferretti il mio più bel disco dell’epoca è Sulle corde di Aries) e la seconda, che focalizzerei su L’Egitto prima delle sabbie del 1978».

È stata quindi la volta degli anni 80 e 90 contrassegnati da pop elettronico, canzoni orchestrali e svisate rock. Abbandonata l’élite, la sua musica raggiunse il grande pubblico.
«In effetti sono stati anni pieni di soddisfazioni da cui estraggo in particolare 4 dischi: La voce del padrone, Fisiognomica, Come un cammello in una grondaia e Gommalacca».

Ha mai pensato di collaborare con Brian Eno? Di filtrare le sue composizioni attraverso l’ambient music?
«Sarebbe interessante e non è detto che prima o poi non succeda. Ho conosciuto Eno nel 1993, mentre stavo incidendo Café de la paix in Inghilterra, al Real World Studio di Peter Gabriel. Ci siamo messi a dialogare di musica e di astrologia e ho scoperto una persona speciale, luminosa, piena di talento».

Che dire invece del Battiato che lavora in ambito operistico?
«C’è stata la Messa Arcaica, che ritengo il mio miglior lavoro in assoluto: un personale pellegrinaggio nel sacro che ho concluso e non potrei più ripetere perché attraverso quello spartito ho raggiunto il massimo delle mie possibilità. Adesso vorrei cercare di scrollarmi di dosso la tradizione armonica per entrare dentro quei climi “fastidiosi” che appartengono al nostro tempo. Trovo che nella musica di oggi vi sia un notevole degrado e insieme una miriade di possibili combinazioni sonore. Nel 600 vigeva l’assoluta purezza dell’ascolto, la non-saturazione. Sono tuttavia convinto che oggi la musica sia più complessa e più interessante da affrontare».

E allora quali alchimìe potrebbe riservarci?
«Aperture d’orizzonte che definirei “dolorose”, che potranno dare ai compositori la chance di rimettere in gioco cervello e sentimenti. Per il futuro prevedo un utilizzo impietoso di componenti musicali dispari: brandelli di opere liriche, rock, etnomusica… tutto centrifugato e triturato nel nome di un crossover globale. Di sicuro esploderanno i parametri secondo i quali siamo abituati a ragionare, ma a quel punto bisognerà rischiare. E sarà ancora più stimolante».

(Le immagini sono tratte dalla pagina Facebook di Franco Battiato)