Jean Franco Formiga (1999-2021) era un ragazzo italiano originario della Costa d’Avorio che abitava a Novi Ligure con la madre adottiva. Un tipo incontenibile ed esuberante, raccontano. Un cantante promettente e con una voce d’angelo che si batteva come un leone contro ogni genere di pregiudizio razziale e che la leucemia ha stroncato giovanissimo. È significativo e commovente che alla sua memoria sia dedicato Hope, il nuovo disco con cui 2 italiani del Nord, Fabrizio Poggi ed Enrico Pesce (che il giovane ivoriano lo aveva avuto come allievo al liceo musicale Saluzzo Plana di Alessandria), esprimono in musica i loro sentimenti sul tema dei diritti civili e delle discriminazioni razziali gettando un ponte fra l’epoca di Martin Luther King e quella del Black Lives Matter.
Non è una sorpresa, e anzi il logico sviluppo di un percorso preciso, almeno per il bluesman vogherese Poggi: che leggendo, viaggiando in lungo e in largo per gli Stati Uniti e suonando con i grandi della musica afroamericana si è appassionato da tempo alla questione mentre Pesce — pianista, concertista, compositore, arrangiatore e autore di colonne sonore originario di Acqui Terme — è da sempre abituato al crossover tra generi e stili. Per questo suona spontaneo e naturale, nelle loro mani, un progetto discografico in cui il blues incrocia il folk, lo spiritual, la classica e la musica da film esprimendosi con un linguaggio intimista, minimale, sotto le righe, dove contano anche i silenzi e gli spazi fra le note.
Fabrizio Poggi
© Riccardo Piccirillo
Tutto ruota intorno al canto di Poggi, alla sua armonica e al pianoforte di Enrico, assistiti qua e là da qualche sottolineatura di chitarra (Hubert Dorigatti), di basso elettrico o contrabbasso (Jacopo Cipolla) e di percussioni (Marialuisa Berto e Giacomo Pisani), oltre che da qualche voce ospite: quella autenticamente black di Sharon White (da 20 anni corista di Eric Clapton, e in passato a fianco di altri colossi come Annie Lennox, Bryan Ferry e Paul McCartney) colora Every Life Matters, un esplicito invito a non mollare scandito dai battimani nel bell’inciso gospel; e I’m Leavin’ Home, una specie di mantra che — spiega Poggi nelle note di copertina — si ispira ai ring shout: canti e danze tradizionali che stanno alle radici del blues e del jazz e che gli schiavi di origine africana eseguivano in gruppo per cercare sfogo e liberazione alle loro sofferenze. Mentre Emilia Zamuner, giovane cantante jazz napoletana che ha in curriculum un duetto con Bobby McFerrin, aggiunge sapore alla cover di Motherless Child, il celeberrimo negro spiritual che attraverso le voci di Odetta, Peter, Paul & Mary, Richie Havens (a Woodstock), Van Morrison, Prince e tanti altri ha raccontato la tragica storia dei figli neri strappati alla terra d’origine e alle madri naturali dai mercanti di schiavi.
Poggi non ci prova neanche, a mettersi in competizione: lì e nel resto del disco canta con una voce roca, sommessa, a volte quasi sussurrata, cercando pathos e consonanza usando il feeling al posto della potenza vocale; esprime invece un eloquio più ricco e frastagliato con le scale, i trilli squillanti e i lirici lamenti delle sue armoniche, dialogando con un pianoforte che nelle mani di Pesce è uno strumento fluido ed elegante, ritmico ed evocativo, timbricamente abbastanza ricco da non far rimpiangere l’assenza di una strumentazione più corposa.
Enrico Pesce
© Mauro Negri
Al messaggio di Hope risultano funzionali composizioni originali e rivisitazioni di standard, interpretati con asciuttezza e una certa originalità: fra le prime, Leave Me To Sing The Blues è una rilettura in chiave jazz e blues di una celebre aria del ‘700, intesa ad evocare la musica di matrice europea che i proprietari delle piantagioni di cotone del Sud degli Stati Uniti ascoltavano nelle loro lussuose residenze, mentre la conclusiva Song Of Hope è un epilogo riflessivo e consolatorio che celebra il valore empatico, solidale e balsamico della musica. Il resto del repertorio è noto, in altri casi notissimo: Hard Times, composta nel 1854 dal padre della canzone americana Stephen Foster e incisa per la prima volta su cilindro fonografico nel 1905, conserva una sua austera nobiltà melodica, mentre in Goin’ Down The Road Feeling Bad, canzone errante che da Woody Guthrie è arrivata a Bob Dylan, da Elizabeth Cotten ai Grateful Dead, “la milonga incontra il blues” e una pacata The House Of The Rising Sun si tiene a distanza dalla celeberrima versione degli Animals così come dalle prime e ultracentenarie interpretazioni da parte di artisti folk.
Nelle prime battute di Nobody Knows The Trouble I’ve Seen, altro famosissimo spiritual risalente almeno alla metà del ’700, il fraseggio di Pesce ha un taglio quasi impressionistico prima di assumere un andamento ritmico e bluesato; e anche I Shall Not Walk Alone (scritta da Ben Harper e da lui pubblicata nel 1997 sull’album The Will To Live) prende una piega diversa dalle versioni che Poggi ha spesso suonato all’armonica accompagnando i Blind Boys Of Alabama. È probabilmente il pregio maggiore di Hope, quello di aggiornare il blues e le antiche protest songs contaminandoli con altri generi e proiettandoli nel presente. C’è, nelle loro interpretazioni, una sensibilità europea ma anche una sincera aderenza allo spirito di quell’antica musica afroamericana: una musica che esprime sofferenza ma che sa essere curativa, e che senza nascondere le piaghe di una società ingiusta trasmette salutare speranza nel futuro, oggi che quel futuro fa un po’ paura a tutti.