Prima un remix di This Year’s Girl, affidato alla voce di Natalie Bergman per la sigla della nuova stagione del serial televisivo The Deuce – La via del porno; poi una bizzarra rivisitazione di This Year’s Model, a opera di cantanti di lingua spagnola (Spanish Model), sembrano avere risvegliato in Elvis Costello l’interesse per il classico suono dei suoi dischi di fine anni 70 aprendo le porte a un album come The Boy Named If. Che non è, intendiamoci, un tuffo a occhi chiusi nel passato o una calligrafica riproduzione d’epoca. Anche perché, nel frattempo, sono passati più di 40 anni: al posto degli Attractions ci sono gli Imposters (con Davey Faragher, basso più ritmico e groovy oltre a un’eccellente voce da corista, in luogo di Bruce Thomas) e, come Costello stesso ha ricordato recentemente, anche lui, il batterista Pete Thomas e il tastierista Steve Nieve hanno modificato nel corso degli anni il modo di concepire ritmi, melodie e armonie, suonando canzoni timbricamente più varie e più ricche di sfumature.
Resta il fatto, però, che il nuovo disco del quartetto sembra incanalarsi in un solco che partendo da This Year’s Model (1978) passa per Blood And Chocolate (1984) e Brutal Youth (1994) per arrivare fino a When I Was Cruel (2002, 1° album con Faragher e gli Imposters), focalizzandosi sul rock and roll con poche concessioni alle innumerevoli divagazioni stilistiche di una produzione ondivaga e camaleontica. Musica chitarristica con arrangiamenti secchi e nervosi, suoni aspri e taglienti, grandi incisi pop saturi di elettricità, una sequenza di 13 “istantanee” più o meno accomunate — in modo obliquo, e con la solita ricercata ricchezza di linguaggio — dal tema della crescita e dell’evoluzione: i voli di fantasia dell’infanzia; il traumatico distacco dall’adolescenza (“la fine del pensiero magico”, come titola 1 dei nuovi brani); le tappe accidentate dell’educazione sessuale e sentimentale; una maturità spesso tardiva e conquistata a fatica; la vecchiaia che induce a voltarsi per riflettere sul passato e sugli errori commessi.
Elvis Costello
© Mark Seliger
Lo esplorano canzoni capaci di espandersi e di diventare piccole favole e brevi racconti illustrati, nella costosa e accattivante edizione limitata con libro + Cd dove, aiutandosi con le sue coloratissime illustrazioni in stile Art Brut («a volte divertenti, altre volte spiazzanti o macabre»: ricordate la copertina di Blood And Chocolate?) Costello aggiunge sfondi, premesse o sequel che rafforzano le suggestioni delle loro ambientazioni romanzesche e cinematografiche, spesso demodé (vecchi teatri, sale da ballo con musica assordante, night club dalla clientela sordida che illude le cameriere con effimeri sogni di gloria). È un contesto perfetto per 1 pezzo swingante e rétro come Trick Out The Truth (un elegante gioco illusionistico in cui sfilano come tante comparse Benito Mussolini e Gustav Mahler, Carlo Marx, Groucho e i suoi fratelli, Abbott e l’altro Costello, Mirna Loy, Godzilla e Lady Godiva) o per le cadenze da music hall di The Man You Love To Hate; ma anche per il suo rock and roll vecchia maniera (con l’accento sul “roll”, come ha spiegato di recente a Rolling Stone).
Non un monoblocco di riff e di ritmi, squadrati e granitici; ma una musica agile e dondolante, che muove i fianchi e schiocca le dita come quella della Sun Records e dei Beatles al Cavern; del 1° Elvis Presley da cui prese il nome d’arte e del Buddy Holly a cui rubò il look. Musica nata essenzialmente per voce e chitarra elettrica (l’antica e fedele Fender Jazzmaster che l’inglese imbracciava sulla copertina del suo 1° album) con l’apporto ritmico essenziale e sempre in primo piano della vecchia Gretsch di Thomas, cui solo in un secondo momento si sono aggiunti il basso e i cori di Faragher; e poi l’organo Vox Continental e le altre tastiere di Steve Nieve, in un gioco a rimbalzo tra New York, la California e Parigi imposto dalla separazione forzata post Covid.
Il disco è nato così, uno strato sopra l’altro, cambiando le dinamiche e l’interplay dei musicisti anche se al coproduttore Sebastian Krys va riconosciuta l’abilità nel mixare gli strumenti conservando l’impressione di un suono quasi in diretta e da “buona la prima”. È quello, dopo la prima fragorosa schitarrata di Elvis, il feeling che esplode in Farewell, OK, canzone d’addio dal testo pungente che Costello canta con la sua più tipica voce beffarda e nasale appoggiandosi a un ritmo battente che profuma di Merseybeat; una pulsazione insistente come quella della classica Pump It Up che si ripete anche nell’incedere convulso e logorroico di Mistook Me For A Friend, mentre Magnificent Hurt sfodera un prorompente basso Motown, un riff che ricorda Money di Barrett Strong, un breve e dissonante assolo di chitarra e quegli accordi di Vox che fanno tanto Nuggets e garage rock primi anni 60.
The Imposters
L’umore teso e aggressivo che caratterizzava i giovani Attractions ritorna a farsi sentire anche nella tenebrosa title track, The Boy Named If (“il soprannome del tuo amico immaginario; il tuo io segreto, quello che sa tutto ciò che neghi, quello che incolpi per le stoviglie in frantumi e i cuori che spezzi, compreso il tuo”) e nella semplicità solo apparente di una parabola esistenziale come quella raccontata in Penelope Halfpenny. Anche il drumming tempestoso di The Death Of Magic Thinking, l’impetuoso punk jazz a tempo dispari di What If I Can’t Give You Anything But Love e i singulti ritmici di The Difference (con un pizzico di Watching The Detectives e uno spunto suggerito dalla sequenza di un film di Paweł Aleksander Pawlikowski) hanno il giusto mix di rudezza e raffinatezza, mentre è lo struggente country soul di Paint The Rose Blue a presidiare il campo delle ballate, altra grande specialità costelliana, insieme alla non meno seducente My Most Beautiful Mistake (con un bel controcanto femminile di Nicole Atkins, cantautrice del New Jersey) e a Mr. Crescent, romantica e malinconica come un terzinato degli anni 60.
Il bello è che tutti questi rimandi suonano spontanei e non calcolati, e che gli Imposters e il loro leader si tengono alla larga da uno sterile esercizio di stile: danno invece robusta sostanza a una nuova masterclass di scrittura ed esecuzione, con un mazzo di canzoni abbastanza ispide e complesse eppure orecchiabili e comunicative che sembrano fatte apposta per essere suonate dal vivo (circa la metà sono entrate nelle scalette dei concerti ben prima della pubblicazione dell’album): testimonianza di una grinta, di una vitalità e di una verve che gli ultimi esperimenti artistici di Costello e le sue vicende personali (la rimozione di un tumore, “piccolo ma aggressivo”, nel 2018; il profondo lutto suscitato dalla morte della madre nel 2021) non rendevano così scontate. The Boy Named If è invece uno scintillante ritorno al massimo della forma e il modello di stile che Costello propone per quest’anno è impeccabile: anche il pubblico britannico sembra essersene accorto (1° album di inediti in Top 10 in 28 anni: non succedeva, appunto, dai tempi di Brutal Youth).