“La storia che state per vedere non è vera, ma nemmeno inventata”. A metà strada fra documentario e film di finzione, realtà e ricostruzione in celluloide, Downtown 81 (originariamente intitolato New York Beat Movie) è un affresco della Grande Mela nell’anno di grazia 1981. Periodo vivace, epoca pop e insieme underground, impegnata ma anche affascinata dai piaceri del superficiale che poi diverranno definizione postuma dei cosiddetti Eighties. Il fotografo svizzero Edo Bertoglio filma una giornata newyorkese attraverso gli occhi e i passi di Jean-Michel Basquiat. Passeggiate verso qualcosa o senza meta, camminate che diventano segni, prove d’una libertà cercata, forse mai raggiunta. «Io sono libero, la città no». Chiusa nel perbenismo dei lacché del potere che giudicano o zittiscono la voce dell’altro. Quel perbenismo infranto nel graffito, nell’oltraggio. Ma la città è anche vita, cemento forgiato dall’uomo.
«Voglio dipingere la città di rosso o di nero». New York & Basquiat. Un rapporto indissolubile fra artista e città. Lotta ai musei, arte che si ridona la vita gettandosi per strada, fra la gente o nel degrado trasformato, colorato. E se la città diventa arte, il documentario si fa videoarte. «Si potrebbero fare delle opere pubbliche», dice Basquiat. Eccolo allora scrivere su un muro o suonare il suo inseparabile sax in mezzo ai palazzi, ai piedi dell’Empire State Building, sotto le finestre.
Artista eclettico, poeta, writer, pittore, musicista. Jean-Michel vuole trasformarla, la città. Comunicare con i suoi abitanti. Trasformare, mischiare le carte, comunque intervenire e dire la propria. Lavoro dell’artista. Non come dice l’artista/filisteo che Basquiat incontra. Non salvaguardare ma mischiare, defraudare. Come una scritta sul muro, o un pasticcio sopra un ritratto di Man Ray in un libro d’arte. Ecco perché i dottori che lo visitano lo guardano come un parassita. Ecco perché JMB non troverà mai il suo posto quando tenteranno di trasformarlo in artista “mainstream”. Libertà è anche conflitto, opposizione dialettica o solo rifiuto. Che non genera isolamento ma impegno, lotta. Colorare, firmare, dissacrare, esprimere. O semplicemente passeggiare tra i palazzi. Coltivando l’arte di arrangiarsi, cercando di vivere dei propri lavori o anche solo cercando un posto dove dormire. Passando da un club all’altro, da uno spinello all’altro, band dopo band. E in mezzo, una donna sfuggente, furti, produttori musicali un po’ viscidi. Traspare già il presentimento di una fine, d’una lotta persa.
Non durerà molto la luce di Jean-Michel Basquiat. Nella sua lotta – contro il museo e la critica – si sentirà sconfitto. Lui che si firmava, scriveva, “taggava” (affondano in questi anni le radici d’un termine ormai inflazionato), verrà etichettato e la sua arte si trasformerà in firma: «Non capisco se scrivo o sono scritto». Downtown 81, interpretato da vari artisti della scena underground nel ruolo di se stessi (Deborah Harry dei Blondie, Kid Creole & The Coconuts, Tuxedomoon, Coati Mundi, James White & The Blacks…), è un’istantanea delle contraddizioni (e della fecondità artistica) di quegli anni americani. Nella sua un po’ grezza costruzione registica, rimane un documento decisivo su un artista che fu molto più che un ragazzo affascinante o “la mascotte di Andy Warhol”.
Foto: © Edo Bertoglio