Ce lo siamo goduti live, il californiano Donny McCaslin (nella foto di Mirko Silvestrini), mattatore lo scorso 27 luglio del festival Fano Jazz by the Sea alla Rocca Malatestiana. Il suo sax tenore, giostrato con acrobatica maestrìa fra jazz, noise, elettronica, sperimentazione, alternative rock e funk, nel 2016 si è ritagliato un ruolo fondamentale in Blackstar, il disco dell’addio di David Bowie. È stato proprio quest’ultimo – che il sassofono lo amava eccome avendolo suonato negli anni 60 con i Konrads, nei ’70 votati al glam rock, nei ’90 e nel 2000 fra i solchi di Black Tie White Noise, 1.Outside, Earthling e Heathen – a volerlo a tutti i costi accanto a sé.

Nel repertorio che McCaslin sta presentando nel tour che a settembre lo farà approdare al Blue Note di Tokyo e al Monterey Jazz Festival, non mancano estratti dal suo nuovo album intitolato I Want More (Edition Records).

Il tuo incontro con Bowie è avvenuto nel 2014 in un club di New York, dove ti stavi esibendo con la Maria Schneider Orchestra. Cosa ricordi di quella sera?
«Quel club era il 55 Bar e in realtà suonavo con la mia band. Maria è venuta ad ascoltarci insieme a David e ricordo a un certo punto di averlo intravisto con la coda dell’occhio, ma ho cercato di rimanere a portata di mano e concentrato sulla musica. Una volta terminato il concerto non li ho più visti, ma un paio di giorni dopo ci siamo trovati alla prima session per la  versione iniziale di David e Maria del brano Sue (Or In A Season Of Crime), che sarebbe poi entrato a far parte di Blackstar».

Sei stato un 12enne teenager prodigio che suonava nell’ensemble jazz di suo padre. Che memoria conservi di quell’esperienza?
«Mi ritengo fortunato che papà, vibrafonista, mi abbia concesso non poche opportunità di esibirmi quand’ero agli esordi. Ho potuto acquisire sul palco un’esperienza inestimabile, ascoltando e interagendo con gli altri musicisti. È stato un processo pieno di alti e bassi, ma ne sono uscito musicalmente più forte, esperto, completo, ma soprattutto pronto a continuare a imparare, quando ho lasciato casa per frequentare il Berklee College of Music».

Chi ti ha più ispirato fra i sassofonisti?
«Paul Gonsalves, Charlie Parker, John Coltrane e Michael Brecker».

Qual è il primo disco che hai ascoltato?
«Un album con le musiche di John Philip Sousa, denominato “il Re della marcia americana “. È riuscito subito a catturare la mia immaginazione».

E il primo che hai acquistato?
«Ricordo di avere scambiato una giacca in pelle con un album che pensavo contenesse la versione di Surfin’ USA dei Beach Boys cantata da Chuck Berry. In realtà era Sweet Little Sixteen, che la band di Brian Wilson aveva sostanzialmente copiato dal chitarrista del rock and roll per trasformarla in 1 dei suoi più celebri successi».

Come in Blackstar (2016) e in Beyond Now (2017), in I Want More hai voluto accanto a te il tastierista Jason Lindner, il bassista Tim Lefebvre e il batterista Mark Guiliana…
«Più che logico, visto che parecchia storia è intercorsa fra noi. E quello che più apprezzo è l’elemento di “pericolo” che può verificarsi ogni volta che stiamo insieme».

Quali sono le differenze fra I Want More, Beyond Now e Blow. del 2018?
«Ogni disco cattura, come in un’istantanea, dove mi trovo in quella determinata fase del mio viaggio artistico. Quel percorso, in particolare con Blow. e I Want More, mi ha condotto verso luoghi inaspettati. Musicalmente parlando, mi abbandono al singolo momento e seguo quel viaggio anche quando non è chiaro dove mi stia portando. È eccitante, ma anche snervante».

In Beyond Now hai magistralmente rivisitato 2 composizioni strumentali di David Bowie: Warszawa dall’album Low (1977) e A Small Plot Of Land da 1.Outside (1995). Perché questa scelta?
«Abbiamo iniziato a suonare Warszawa nel 2016, subito dopo la morte di David, per rendergli un doveroso omaggio. Più di qualsiasi altro brano, ha dimostrato di sapersi adattare alla sensazione del momento ed è stato catartico eseguirlo notte dopo notte, concerto dopo concerto. A Small Plot Of Land, invece, l’abbiamo scelta perché sembrava naturale per il nostro gioco: una melodia forte, molto spazio aperto da esplorare… David Binney, che ha prodotto Beyond Now, ha svolto un ottimo lavoro bilanciando tutti gli elementi».

Donny McCaslin
© Jimmy Fontaine

Sono convinto che fra i brani del nuovo disco, Stria e Hold Me Tight esprimano il grande fascino di certi temi da film. Hai mai pensato di comporre una colonna sonora?
«A volte, quando compongo penso in modo cinematografico e sono interessato a esplorarlo come uno sbocco creativo. Non ho ancora avuto il tempo di concentrarmi veramente su tutto ciò, ma ammiro quel genere di approccio e ne sono più consapevole ora quando guardo un film, immagino la musica e cosa potrebbe essere».

Dietro al titolo cinematografico, il brano Big Screen ha parecchie somiglianze con Lazarus, il pezzo più toccante di Blackstar
«Connessione di cui non sono del tutto consapevole, ma sono d’accordo con te: per un po’ di tempo Lazarus è stato un punto fermo nel nostro set; e la sua influenza è sempre presente nel mio inconscio creativo».

C’è un album di David Bowie che conosci meglio e magari apprezzi più di altri?
«In questo momento ti direi che è Lodger a distinguersi dagli altri, ma se me lo chiederai la prossima settimana ti risponderò senz’altro Low, Hunky Dory e Young Americans».

Poche parole per definirti…
«Sono un sopravvissuto e sono coraggioso».