Da tempo si vociferava, del sommo Donald Fagen, di una possibile versione live di The Nightfly. Noi fans ci siamo chiesti: È possibile rendere dal vivo un album tanto perfetto, intenso, magico? È possibile ricreare in concerto quelle atmosfere, quelle sonorità e quegli arrangiamenti senza svilirlo? Riuscirà mai Donald, con il suo infinito talento, a restituirci live quella magia? La risposta è: certo che sì. Ma non avevamo alcun dubbio in proposito, avendo a che fare con un musicista del suo calibro e con una band impeccabile a supportarlo.
Circolavano alcuni bootlegs, peraltro ben registrati, in cui Fagen riproponeva dal vivo il repertorio di The Nightfly: ma si trattava di sporadici momenti e non della riproposizione in toto di un’opera fondamentale non solo nel suo curriculum, ma nella storia della canzone d’autore americana. Vale la pena citare almeno Feelin’ Grrovy, doppio Cd registrato a Toronto nel 2006 con quasi tutta la band che è presente in The Nightfly Live. Già allora, Donald Fagen mise a punto gli arrangiamenti e predispose le corde vocali per questo meraviglioso album che ci regala nuovamente quelle emozioni, quelle sensazioni e quei brividi provati quando una miriade d’anni fa abbiamo posizionato The Nightfly sul piatto del giradischi.
“I’m Lester the nightfly, hello Baton Rouge“… e inizia un viaggio notturno popolato di luci al neon, musica jazz in sottofondo, quartieri cinesi malfamati, la nuova frontiera da affrontare nell’attesa di un attacco nucleare sovietico, le sigarette Chesterfield da fumare ascoltando Dave Brubeck… Questo e altro ancora in un disco senza tempo, senza confini e senza spazio che ribadisce la sua originalità, la sua contemporaneità, il suo fascino, il suo valore. Che se possibile, alla luce di tanta musica indecente e prodotta ancora peggio in questi ultimi anni di “nulla cosmico“, aumenta a dismisura come antidoto alla mediocrità e alla nullità di un panorama musicale terribilmente triste, asettico, vuoto.
Spetta a I.G.Y. aprire le danze di questa riproposizione memorabile. E una menzione speciale, anzitutto, se la merita il batterista Keith Carlock, dispensatore di grandi ritmi che nell’album in studio venivano divisi fra Jeff Porcaro, Ed Greene ed altri percussionisti. Keith invece fa tutto da solo, ben sostenuto da una band che può contare sul talento di Jim Beard alle tastiere (un tempo lo definimmo “l’erede di Joe Zawinul“, ma in pochi se lo ricordano), Freddie Washington al basso, Jon Herington alla chitarra, Michael Leonhart alla tromba, Walt Weiskopf al sax e Jim Pugh al trombone, senza dimenticare le magnifiche voci di supporto formate dal quartetto di stelle Carolyn Leonhart, Jamie Leonhart, Catherine Russell, La Tanya Hall.
Donald Fagen
The Nighfly Live ha il potere di scorrere in un flusso di coscienza che ti rapisce, ti porta dentro i testi delle canzoni, gli arrangiamenti sofisticati ed eleganti, le reminiscenze jazz anni 50 e 60 da cui Donald ha sempre tratto ispirazione. Ma se pensate a un sequel pedissequo e senz’anima, commettete un imperdonabile errore: Fagen ripropone il disco integralmente, ma lo fa con una partecipazione e un sentimento davvero commoventi che si percepiscono dalle increspature della sua voce. Che rivisitare quel repertorio lo emozioni, traspare dal modo in cui “porge” e “interpreta” ogni singolo pezzo. In questo, Donald Fagen non ha rivali e ve lo testimonia dalla prima all’ultima nota. Non c’è un cedimento, un attimo di stanchezza, tantomeno di appagamento. Tutto si svela, ancora una volta, esemplare. È il vecchio beatnik a graffiare di nuovo: la sua ironia, il suo dissacrante humour, le sue metafore non hanno perso una sola stilla del fascino di allora. New Frontier e The Goodbye Look sono ancora gioielli di rara bellezza. Maxine ci riserva un’interpretazione al femminile da brividi. Che dire? Mi sorge una considerazione: se ancora ci commuove e ci emoziona un album uscito nel 1982, cosa diavolo ci hanno proposto a livello di “canzone” in questi ultimi 40 anni?
Northeast Corridor, firmato invece Steely Dan, è il 1° live senza il chitarrista Walter Becker (1950-2017) e nulla aggiunge alla storia, all’aura di leggenda che la band ha saputo creare attorno a sè. Album bello, suonato alla perfezione, grazie alla bravura di Donald Fagen e del gruppo non fa minimamente sentire la mancanza di Becker: anche se Walter era uno che lavorava dietro le quinte, che tesseva le fila e poco si spendeva sotto i riflettori. La scelta del repertorio, quanto mai azzardata, fa onore alla casa discografica che ha saputo scegliere il “non convenzionale“: non un greatest hits dal vivo ma una serie di pezzi, ognuno dei quali rappresenta 1 capitolo fondamentale della lunga avventura targata Dan.
Da Black Cow alla cover di A Man Ain’t Supposed To Cry di Joe Williams, passando per Rikki Don’t Loose That Number (negli ultimi anni poco eseguita dal vivo), Any Major Dude Will Tell You (gemma spesso dimenticata e poche volte riproposta in concerto) e Glamour Profession; senza dimenticare gli onnipresenti Reelin’ In The Years e Bodhissatva, Northeast Corridor propone una storia degli Steely Dan punteggiata da momenti straordinari. E quando tocca ad Aja… prendetevi tutto il tempo necessario e ad occhi chiusi ascoltatela con attenzione. E se avete nelle orecchie l’assolo di Steve Gadd alla batteria sul microsolco originale… ascoltate Keith Carlock e capirete che scelta non fu mai più azzeccata. Davvero un momento da incorniciare.