Autore di canzoni, musicista, cantante e scrittore, Colin Meloy arriva dal Montana ma abita a Portland, in Oregon: una città colta e amante della letteratura, dove ha sede la più grande libreria degli Stati Uniti e in cui persino i mendicanti, per strada, ti chiedono un libro tascabile insieme a un bicchiere di latte (l’abbiamo visto con i nostri occhi, tanti anni fa). Non c’è troppo da stupirsi, allora, che sia stato proprio un romanzo – il fantasioso viaggio fra passato e futuro di The Book Of Joan di Lidia Yuknovitch, ispirato alla figura di Giovanna d’Arco – a innescare la scintilla creativa e l’arco narrativo del suo nuovo disco con The Decemberists. Gente che se la vedi in fotografia sembra a sua volta vivere in una dimensione sospesa nel tempo e nello spazio, un po’ hipster e un po’ quaccheri dell’800.
D’altri tempi è anche la loro decisione di chiudere con una rêverie, una fantasmagorìa di 19 minuti e 20 secondi ispirata alla vicenda della pulzella d’Orléans; un album che a distanza di 6 anni dall’inattesa e poco soddisfacente reinvenzione synth pop di I’ll Be Your Girl, riporta la band per la prima volta in orbita indie e con un’etichetta di sua proprietà nel suo habitat naturale inducendola a riavvolgere i fili della sua storia: proprio nelle ultime strofe di Joan In The Garden, Meloy pronuncia le parole che intitolano l’album e riassumono perfettamente il suo senso ciclico, riassuntivo di una carriera e di un percorso artistico iniziato più di 20 anni fa.
The Decemberists
È una vera e propria suite, un turbine di suoni e di immagini onirico-psichedeliche in cui si susseguono 4 movimenti: una prima parte caratterizzata da un arpeggio di chitarra elettrica e da un coro; un crescendo ritmico e melodico decisamente pinkfloydiano e scandito da uno squillante scampanìo; una sezione elettronica strumentale ambient/noise e infine un’incalzante coda che si apre con un riff hard rock alla Black Sabbath per sfociare in una cavalcata progressive in stile Genesis. Troppa ambizione, troppe citazioni, un sovraccarico di influenze e di suggestioni? Ma no, ce ne fossero di più in giro di musicisti senza macchia e senza paura come loro, capaci oltretutto di rielaborare quei materiali con leggerezza e senza eccessive pretese.
Non votati costituzionalmente alla nostalgia, ma sicuramente démodé nella volontà di concepire la loro nuova opera come un doppio album di quelli che hanno forgiato i loro ascolti (Tusk dei Fleetwood Mac, Zen Arcade degli Hüsker Dü), suddiviso idealmente in 4 facciate: Joan Of Arc ne occupa l’ultima, preceduta da un 1° lato d’impronta sostanzialmente folk, un 2° occupato principalmente da ballate e un 3° dal suono più moderno, a ricostruire un mondo un po’ fiabesco in cui pecore e felini, prede e predatori, sembrano poter convivere pacificamente come nel dipinto naturalistico realizzato dalla moglie di Meloy, Carson Ellis.
Colin Meloy
“Com’è sempre stato, così tornerà a essere ”, recita il titolo. E infatti riecco riemergere nel gruppo, come ai tempi migliori, l’amore dichiarato per il jingle jangle, per gli Smiths e per i R.E.M. (dopo Peter Buck, presente nel 2011 nell’eccellente The King Is Dead, stavolta è la voce di Mike Mills a contribuire ai cori di Joan In The Garden): protagonista della giostra un po’ macabra e un po’ festosa di Burial Ground, con un rimando ai Beach Boys e la voce del concittadino James Mercer degli Shins; e di Long White Veil, contrappunto in chiaroscuro fra una melodia solare incorniciata dalla pedal steel di Chris Funk e un testo lugubre in cui la sposa muore il giorno stesso del suo matrimonio. E poi un’altra passione di lunga data, il folk americano ma soprattutto quello britannico esplorato anni fa anche nel progetto collaterale Offa Rex, che riemerge prepotente fra gli aromi agresti, i tempi dispari e il flauto di The Reapers («Un pezzo dark ma anche divertente che parla di morte e di agricoltura»), nell’umore ombroso e minaccioso di Don’t Go To The Woods e in una William Fitzwilliam che rievoca la figura storica di un militare, 1° conte di Southampton, vissuto nel XVI° secolo alla corte di Re Enrico VIII° prendendo spunto da un’altra opera letteraria (The Mirror And The Light di Hillary Mantel) e dalla musica di John Prine, scomparso pochi giorni prima della sua composizione.
Sono segnali chiari e inequivocabili che rendono perfettamente riconoscibili i Decemberists nell’anno domini 2024 in virtù anche di un suono organizzato con mano leggera ed equilibrio dal vecchio amico Tucker Martine (My Morning Jacket, Sufjan Stevens, Avett Brothers), alla quinta produzione per la band di Portland: asciutto, armonico e organico, con tante chitarre (soprattutto acustiche), le tastiere e la fisarmonica di Jenny Conlee e una batteria secca e rimbombante che John Moen suona ricorrendo pochissimo ai piatti, mentre giocano spesso un ruolo cruciale i colori aggiunti dai tanti strumenti a fiato dell’ospite Kelly Pratt che mena le danze nell’inattesa rumba sudamericaneggiante di Oh No! (un’altra festa nuziale scombinata da caos e disordine) guadagnandosi il primo piano con 1 corno francese doppiato da 1 trombone in un’altra suggestiva death ballad, The Black Maria; e poi da 1 flicorno nella limpida e lineare All I Want Is You, mentre assieme al pianoforte di Conlee tromba, sassofono e tuba ricreano un’atmosfera a metà fra Sgt. Pepper e vaudeville in America Made Me, un falso inno patriottico in cui Meloy confessa invece il suo disagio di fronte alle teorie che sostengono l’eccezionalismo e la supremazia morale e politica degli Stati Uniti. Il pop soul di Tell Me What’s On Your Mind sembra di nuovo ammiccare ai Beatles con una melodia decisamente harrisoniana sostenuta dal basso in stile Motown di Nate Query mentre Born To The Morning, sottolineata da un’armonica e dal gorgoglìo dei sintetizzatori, è la canzone più rock del disco e Never Satisfied riporta in superficie la pedal steel disegnando un panorama decisamente westcoastiano.
C’è tutto quanto abbiamo imparato ad amare dei Decemberists nel corso di questi 20 anni abbondanti: melodia, linguaggio ricco e sofisticato, cultura letteraria, retromodernismo, ambiguità, melodramma, profilo autoironico da nerd intellettuali, una sana dose di humour (spesso nero), il desiderio di prendere posizione rispetto alle derive autoritarie degli Stati Uniti e del resto del mondo (stavolta prendendo Giovanna d’Arco a simbolo di un’eroica resistenza), la voglia di vivere nonostante la presenza incombente della morte (nei loro dischi decessi e omicidi sono all’ordine del giorno): nel 1400 come nel 21° secolo, ai tempi della Guerra dei Cent’anni come oggi, sotto la minaccia del 3° conflitto mondiale, l’uomo comune si aggrappa alla speranza e alle cose che sollevano lo spirito (musica, letteratura, arte) confidando in un cambiamento, anche quando tutto minaccia di restare inesorabilmente immutabile e come prima.