In quelle che sono probabilmente le sue ultime foto, pubblicate su Facebook dalla cantautrice texana Sarah Jarosz che gli aveva fatto visita dopo avere registrato nuove canzoni con lui, David Crosby sembra sereno, in pace con se stesso, persino in buona salute, a piedi nudi con un cappellino in testa e gli occhiali da sole. Lui, sua moglie Jan, Sarah e il bassista Jeff Picker su una deserta spiaggia californiana dalle parti della sua casa a Santa Ynez. Sole, sabbia, onde, aironi e uno sguardo che si perde all’orizzonte, verso quel punto d’incontro fra mare e cielo in cui ha sempre proiettato la sua musica.

Il testamento musicale, in attesa di 1 eventuale album postumo, è invece il Live At The Capitol Theatre uscito in formato Cd+Dvd a dicembre 2022, registrato e filmato nel 2018 durante il tour di promozione dell’album Here If You Listen nel teatro di Port Chester, stato di New York, che di Crosby è sempre stato 1 dei covi preferiti. Un ricordo migliore non avrebbe potuto lasciarlo, grazie anche ai giovani musicisti che lo affiancano: la Lighthouse Band composta da Michael League, leader dell’ensemble strumentale Snarky Puppy; e dalle cantautrici Becca Stevens e Michelle Willis, quest’ultima unico punto di contatto con il gruppo parallelo con cui Crosby si esibiva in questi anni, la Sky Trails Band che comprendeva il figlio ritrovato Jeff Raymond alle tastiere e il prodigioso chitarrista Jeff Pevar, entrambi con lui fin dai tempi dei CPR a fine anni 90. Se quella formazione, apprezzata anche in Italia in un memorabile concerto al Teatro Dal Verme di Milano nel settembre del 2018, incorniciava perfettamente la musica per cui lo abbiamo sempre amato, la molto più eterea Lighthouse Band (priva di percussioni) sapeva spingerlo, a 80 anni, in territori sconosciuti, oltre la sua comfort zone: quanto di più adatto a un navigatore e a un esploratore impavido come lui.

David Crosby (1941-2023)
© Sarah Jarosz

Con loro Crosby sapeva, quando necessario, fare anche un passo indietro, diventare un membro “qualunque” della band, lasciare spazio a Becca nel post-folk aggrovigliato di Regina dove le voci vengono usate in senso ritmico; e a Michelle in un blues modernista come Janet, un puzzle di tempi variabili contrappuntato dalle note funk jazz del suo Fender Rhodes. Le sue tastiere, la chitarra di David e un piccolo arsenale di strumenti a corda suonati da League e da Stevens (chitarre acustiche ed elettriche, 1 basso, 1 charango e un Hammertone che è un ibrido tra una 12 corde e un mandolino elettrico) tessono una ragnatela di suoni delicata e fluttuante su cui poggia il vero perno della band, l’intreccio di 4 splendide voci che Crosby – il grande «architetto dell’armonia», come lo ha chiamato Bob Dylan – orchestra con perizia e immenso godimento (lo si percepisce cogliendo la sua espressione sorniona e soddisfatta sotto l’immancabile zuccotto di lana e i baffoni bianchi spioventi).

«Che senso ha iniziare un concerto con due 2 canzoni nuove?», scherza con il pubblico esponendo la sua filosofia artistica mai accondiscendente né con il pubblico né con se stesso, com’era nel suo ispido e inquieto carattere: è evidente che le canzoni di Here If You Listen e del precedente Lighthouse (2016) gli stavano molto a cuore, tanto da occupare più della metà dei 16 pezzi in scaletta (restano purtroppo fuori, per motivi di spazio, un altro brano recente, Other Half Rule; e la Ohio di Neil Young). La più bella è 1974, rielaborazione e completamento di un demo risalente all’anno del titolo che per decenni era rimasto sepolto nell’hard disk del computer di Crosby. La sua melodia ci catapulta più o meno dalle parti del Wind On The Water inciso a quei tempi con Graham Nash: stessa fragranza, voce e controcanti che ricreano la polvere magica di una stagione perduta. Ma anche le cose nuove, tutte scritte a più mani, hanno un fascino sottile, un flusso circolare, un sapore di avventura che si esprime in melodie e accordi sofisticati e inusuali, molto più vicini al jazz e alla musica modale che al pop rock, rispecchiando un desiderio di trascendenza che si sposa perfettamente alle riflessioni filosofiche e alle poetiche meditazioni dei testi (il valore del Crosby paroliere è stato sottostimato).

Sul palco, ancora più che nei dischi, i 4 creano un interplay ipnotico e irresistibile, una musica sospesa che sembra sfidare la legge di gravità: le nuvole sonore di The Us Below; gli arpeggi di cristallo e i glissando di Things We Do For Love; le risonanze e i chiaroscuri di By The Light Of Common Day (“alla luce di un giorno qualunque/le cose appaiono diverse/da quel che sembravano al buio illuminato dalle stelle”); lo stupore sognante di Glory con un bellissimo dialogo vocale tra Becca e Michelle; la ritmica, pulsante The City nata dalla richiesta di League a Crosby di «scrivere una canzone su New York come se fosse una donna», mentre Vagrants Of Venice dipinge un futuro post-apocalittico e miserabile in omaggio alla fantascienza sempre amata da David e Look In Their Eyes getta uno sguardo compassionevole sul dramma dei migranti.

I classici, intanto, rivivono una vita nuova: Laughing e Guinnevere (con un bel contrappunto di League alla chitarra elettrica) sono ancora più fragili e delicate di quanto fossero in origine, quasi friabili, mentre al succinto atto d’accusa politico di What Are Their Names bastano 4 voci a cappella per non perdere un grammo di potenza, attualità e incisività. Carry Me è una gradita ripresa da Wind On The Water (l’inciso “portami al di sopra del mondo”, allora fatto pronunciare alla madre sul letto di morte, suona oggi premonitore); Déjà Vu è riarrangiata con inventiva, fra assoli di piano elettrico e basso e la voce di Crosby che si lancia in uno scat, mentre Woodstock è l’immancabile omaggio alla venerata Joni Mitchell ma anche al vecchio, indomito animo hippie di David, figlio prediletto della Summer of Love, figlio della Hollywood che contava (suo padre Floyd era un famoso direttore della fotografia premiato con un Oscar) e figlio di puttana incline a litigare con tutti o quasi gli amici storici, a usare Twitter come un arco di frecce avvelenate e a farsi intorno terra bruciata; eppure capace anche di saggezza, di squisite gentilezze e di grande generosità nei confronti di artisti giovani come Jarosz, League, Stevens e Willis.

Baciato da una voce incredibilmente pura e immacolata a dispetto di una vita vissuta più che pericolosamente, era consapevole di vivere una seconda ed effimera giovinezza da assaporare giorno per giorno. Orgoglioso del fatto che l’ispirazione non lo aveva abbandonato (“Oggi la scintilla è ancora lì, in ogni momento, se sai come ascoltare la chiamata la musa bussa quietamente alla tua porta”, canta in By The Light Of Common Day) ma conscio dell’avvicinarsi della sua ora dopo una vita tante volte buttata nel cesso e ripresa per la coda: The Us Below (“La scienza, Dio e tu concordate sul fatto che siamo diventati qualcosa che non avremmo dovuto essere”) è una delle sue ultime odi al potere rigenerativo e trasformativo dell’esistenza e della musica; una musica con cui ha sempre voluto affacciarsi sulla porta del Mistero, del vuoto, dell’aldilà. Di quel Paradiso che in un ultimo, sarcastico tweet postato il giorno prima di morire, definiva come un posto «sopravvalutato» perché «nuvoloso».

Lì ci piace pensarlo finalmente ricongiunto a Paul Kantner dei Jefferson Airplane e a Jerry Garcia dei Grateful Dead, gli altri grandi spiriti liberi della San Francisco dei 60 e dei 70, a ricostituire in un’altra dimensione la loro Planet Earth Rock And Roll Orchestra intonata alla musica delle sfere. Come in fondo Crosby ha sempre cercato di fare durante tutta la sua vita terrena, aprendo la mente e scatenando l’immaginazione a noi che lo abbiamo ascoltato dai tempi dei Byrds e di CSN&Y fino a quelli del Capitol Theatre e dell’ultimo disco di studio For Free, sognando come lui un mondo libero, pacifico e senza confini, dentro e oltre il pianeta Terra.