L’apoteosi del trasformismo. 10, 100, 1.000 David Bowie che sfilano nelle sale della Philharmonie de Paris. Perché David Bowie is. David Bowie è. Basta pedinare le tracce del Grande Camaleonte, unico e inclassificabile, che per mezzo secolo ha inscenato cambi di personalità, umori e musiche traendo di volta in volta linfa dal Surrealismo, da Bertolt Brecht, dall’Espressionismo Tedesco, dal teatro giapponese Kabuki. Dopo Londra, Toronto, São Paulo e Chicago, Parigi (dove Bowie ha inciso allo Château d’Hérouville Pin Ups e parte di Low; e dove sotto il Pont Neuf ha proposto a Iman di sposarlo) rende omaggio alla carriera di quest’icona del ‘900 che ha divulgato il verbo del glam rock, incarnato il white soul, declinato l’elettronica post Kraftwerk, preannunciato la new wave e manipolato il drum & bass. Lo fa mettendo in mostra più di 300 cimeli (provenienti, in gran parte, dall’archivio personale dell’artista londinese) fra testi di canzoni vergati a mano, abiti sfoggiati da manichini senza volto (il look metallico creato da Kansai Yamamoto, il doppiopetto giallo senape disegnato da Freddie Burretti, il costume da Pierrot Lunaire confezionato da Natasha Korniloff, la palandrana con la Union Jack griffata Alexander McQueen…), fotografie (di Mick Rock, Brian Duffy, Masayoshi Sukita, Herb Ritts, Richard Avedon…) videoclips, sequenze cinematografiche (dal Pierrot In Turquoise con la complicità del mimo Lindsay Kemp, a The Man Who Fell To Earth di Nicolas Roeg; da Furyo di Nagisa Ōshima, a Basquiat di Julian Schnabel), strumenti musicali, “artworks” delle copertine degli ellepì (da Diamond Dogs di Guy Peellaert a Scary Monsters di Edward Bell), schizzi scenografici come quelli del tour dei “cani di diamante” che lo vede nei panni di Halloween Jack fra George Orwell (il romanzo 1984) e la pellicola Metropolis di Fritz Lang (1927), quadri dipinti immedesimandosi nel crudo esistenzialismo di Egon Schiele…
Già al debutto, nei primi Sixties dei Kon-rads e dei King Bees, David Robert Jones è un 15enne dal ciuffo rockabilly bramoso di farsi notare. Poi, dopo la sbandata simil Mod nei Lower Third, via libera ai primi pezzi solisti fra cantautorato “soft” e cabaret a presa rapida, e alla svolta hippy/psichedelica di Space Oddity (1969, “Planet Earth is blue / And there’s nothing I can do…”, canta Major Tom), ispirata al film 2001: A Space Odissey di Stanley Kubrick e strategicamente lanciata in simultanea col primo allunaggio del 20 luglio. Il David Bowie dell’individualismo spinto, del narcisismo che sfocia nella pansessualità, è dietro l’angolo: abbozzato nelle fluenti chiome e nell’identità preraffaelita che si scontrano con l’hard rock superomista di The Man Who Sold The World (’70); sfrontato, nelle languide pose da Greta Garbo di Hunky Dory (’71). L’anno successivo, ecco materializzarsi il suo più grande “coup de théâtre”: Ziggy Stardust, alieno dall’indecifrabile Dna sessuale che David Bowie is glorifica con abiti spaziali (“There’s a starman waiting in the sky…”), tute aderenti, “make up”, capelli rossofuoco e il debordante “glamour” di The Rise And Fall Of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars. Muore, Ziggy Polveredistelle, il 3 luglio ’73 all’Hammersmith Odeon di Londra. Assassinato dal suo stesso creatore dopo gli ultimi rintocchi di Rock’n’Roll Suicide.
Da qui in poi, Bowie transiterà ossessivamente da un’identità all’altra: esasperando i toni “camp” (Aladdin Sane, Pin Ups); tramutandosi in fantasma scheletrico e cocainomane (Diamond Dogs, Young Americans); (psico)somatizzandosi decadente Thin White Duke (Station To Station); acciuffando in corner la redenzione al suono avanguardista dei berlinesi Low, Heroes e Lodger. Poi, gli Anni ’80 della “clownerie” post atomica (Scary Monsters), dell’esser “dandy” fino all’ultima piega sartoriale (Let’s Dance), degli umilianti cali d’ispirazione (Tonight + Never Let Me Down) e della geniale, sottovalutata risalita free-rock da “non leader” dei Tin Machine. E ancora, gli Anni ’90 e l’alba del nuovo millennio. Vincenti i primi, fra suoni e visioni agrodolci (Black Tie White Noise, Buddha Of Suburbia); scarnificanti morbosità da killer seriale (1.Outside, liberamente ispirato all’Azionismo Viennese); neo elettronica ai bordi del “feedback” (Earthling); quiete dopo la tempesta (‘hours…’). Altalenante la seconda, fra composizioni dal respiro nostalgico e dall’effetto abbacinante (Heathen) e il trascurabile repertorio di Reality. Dal 2003, per un decennio, silenzio assoluto. Certezza del non ritorno. Invece, ecco materializzarsi l’eclettico The Next Day (2013). E ancora, pochi mesi fa, il jazz “brechtiano” di Sue (Or In A Season Of Crime). Bowie c’è. Istrionico, melodrammatico, depistante. Come la sua vita.
David Bowie is
Fino al 21 maggio 2015, Philharmonie de Paris, avenue Jean-Jaurès 221, Parigi
tel. 0033-1-44844484
Catalogo Editions Michel Lafont, € 39.95
Foto: Costume dessiné par Kansai Yamamoto pour Aladdin Sane Tour 1973, © Masayoshi Sukita/The David Bowie Archive
Bottes de scène pour Aladdin Sane Tour 1973, courtesy of The David Bowie Archive, © Victoria and Albert Museum
Photographie originale pour la couverture de l’album Earthling, 1997, © Frank W Ockenfels 3