Un inciampo che destabilizza e fa perdere l’equilibrio, se non si presta cautela al confine che calpestiamo. È il confine tra realtà e finzione, e ci tocca non vacillare per non cadere in quell’abisso di ipocrisia che permea il mondo.

Ci siamo abituati a ridurre la questione alle fake news e come starne alla larga. Tutto qui? Direi di no. La cosa si complica quando siamo costretti a discernere in un mondo dove realtà e finzione si mescolano al punto che è quasi impossibile individuare i lembi precisi dell’una e dell’altra.

Ci sono ambiti in cui questa difficoltà è più marcata: narrativa, linguaggio cinematografico e soprattutto arte. Prendiamo ad esempio David Bowie: uno che ci andava a nozze, con il mischiare le carte. La sua conoscenza dell’arte di certo l’aiutava. Ma andiamo con ordine.

Nel 1995 usciva l’eclettico lavoro 1.Outside: una riuscitissima incursione nell’industrial art rock e nel trip hop, in una cornice di citazioni artistiche pazzesca. La storia si incardinava sulle vicende dell’art detective (alterego di Bowie) Nathan Adler alle prese con una indagine alquanto complessa.

Un passaggio del Diario di Nathan Adler ci introduce nell’argomento che mi interessa. Eccolo:

Lo stesso Nicolas Serota ci ha giudicati, noi pesci piccoli del dipartimento, degni di un’esposizione alla Biennale di Venezia dell’anno scorso: 3 stanze di testimonianze certe e studi comparati che hanno definitivamente provato come la vacca nel “Test dell’occhio innocente” di Mark Tansey non può discriminare tra il torello di Paul Potter del 1647 (incidentalmente 300 anni giusti prima che io nascessi) e uno dei covoni dipinti da Monet nel 1891.

A cosa si riferisce Bowie quando parla di “Test dell’occhio innocente” di Mark Tansey? Narrazione della realtà o finzione artistica? Entrambe. E qui la faccenda si complica. Aiutiamoci con la foto del quadro. Sì, perché quel quadro citato esiste, eccome.

Mark Tansey, The Innocent Eye Test, 1981
© Metropolitan Museum of Art, New York

Nel dipinto è rappresentata questa scena: nella sala di un museo è stata portata la tela del monumentale De Stier (Il giovane toro) di Paulus Potter. Di fianco al grande dipinto seicentesco troviamo appeso alla parete, nella sua dignitosa cornice, uno dei covoni di Claude Monet. La scena prevede che la sala del museo si trasformi in un laboratorio e si popoli di dottori in camice bianco e distinti uomini occhialuti, forse scienziati esperti di prossemica o delle reazioni che un bovide possa esprimere di fronte a una mucca dipinta. Una mucca in una linda sala di museo, di fronte a un dipinto appena svelato, può destare qualche ovvia e fisiologica preoccupazione: ma per prevenire qualsiasi inconveniente, c’è anche lo scopettone per intervenire prontamente e pulire.

Paulus Potter, De Stier, 1647
© Mauritshuis, L’Aia

The Innocent Eye Test, è il titolo dell’opera di Mark Tansey e racconta questa storia con l’intento di dividere il fenomeno della tradizione accademica da una parte; e parallelamente di ragionare sul luogo comune della percezione pura e naturale dell’immagine, in antitesi alla percezione intesa come atto culturalmente definito. Questo è il punto: cosa vede un occhio innocente nell’incontro con uno sguardo dipinto? Perché la questione sta lì. È l’arte che ci guarda, o siamo noi che guardiamo l’arte? Non solo. La mucca che osserva innocente, da cosa sarà attratta? Dal covone di Monet (metafora del cibo) o dal toro di Potter (metafora del sesso), ma entrambi elementi legati alla sopravvivenza?

Se l’occhio innocente del toro non vede nulla, neanche l’occhio del bovino che guarda la tela dipinta è, in quest’ottica, innocente. Oppure, l’innocenza dell’occhio consiste proprio nel fidarsi della rappresentazione pittorica. E tuttavia nessuno saprà mai cosa vede la mucca: se vede se stessa, se vede un’altra mucca, se vede un dipinto che raffigura una mucca (la più improbabile delle ipotesi).

Claude Monet, Grainstack (Snow Effect), 1891
© Museum of Fine Arts, Boston

Il bovino quindi non discerne, proprio come afferma Adler-Bowie e come testimoniato dalle improbabili 3 stanze colme di studi sull’argomento della Biennale di Venezia.

Tutto un gioco di realtà e finzione. Ci si mette pure la tecnica utilizzata dal contemporaneo Tansey, che gioca con questo equivoco. Lui, pittore iperrealista, rappresenta una scena come se fosse presa da un documento scientifico vintage dell’800.

Finzione e/o realtà, appunto. Altro che fake news. Gioco di confini, di difficoltà di leggere un mondo impermanente. Il nostro. A noi, forse, ci resta la possibilità di scegliere.