Sembravano lingua morta la sweet soul music degli anni 60 e certo classico suono black del decennio successivo, quando Marvin Gaye, Stevie Wonder e Curtis Mayfield sfornavano capolavori in sequenza. Ma poi la Daptone ha regalato notorietà a 2 veterani quali Sharon Jones e Charles Bradley (passati nel frattempo a miglior vita); Michael Kiwanuka ha miscelato quegli ingredienti con il folk e il jazz sulle orme di Bill Withers e di Terry Callier; e l’infaticabile Dan Auerbach dei Black Keys ci ha dato dentro con la sua Easy Eye Sound, etichetta discografica e studio di registrazione, scovando Yola (versante country soul) e Aaron Frazer; recuperando vecchie glorie e costruendo un già nutrito catalogo di musica modern vintage.
Curtis Harding
No, il soul e il classic black per fortuna sono risorti e tornano a occuparsi delle questioni che gli sono sempre state a cuore: l’amore profano e l’amore divino, la dignità, l’uguaglianza, i diritti civili. Ascoltate per esempio Curtis Harding, 42enne cantante, autore e chitarrista che molto aveva impressionato 4 anni fa con il 2° album Face Your Fear, un disco asciutto e in bianco e nero allestito con la sapiente regia del Re Mida Danger Mouse e di Sam Cohen, multitalento di pelle bianca che ha lavorato con Shakira e con Norah Jones; con i National e con Bob Weir (nel progetto The Bridge Session); con Kevin Morby e con Benjamin Booker; e che proprio con la Easy Eye aveva esordito da solista. È ancora lui ad affiancare Harding in If Words Were Flowers e stavolta – il confronto tra le 2 copertine non mente – quel black & white diventa colorato, floreale e psichedelico.
Nativo di Saginaw nel Michigan e cresciuto ad Atlanta, figlio di un ingegnere meccanico e di una cantante gospel che era solita dirgli «Portami fiori mentre sono ancora qui» spronandolo a esternare senza indugi i suoi sentimenti, Curtis ha preso alla lettera l’invito realizzando un album che, ha spiegato, rappresenta il suo «portare fiori al mondo, a chiunque abbia bisogno di sentirsi dire ciò che queste canzoni hanno da dire in questo momento». Rivolgendosi non solo alla comunità afroamericana ma a tutti coloro che, in anni segnati dalla tragedia, dalla separazione e dall’isolamento, provino conforto nel sapere di non essere soli.
È stato registrato prima della pandemìa, If Words Were Flowers, ma nei drammi e nelle libertà negate di questi ultimi 2 anni ha trovato una nuova chiave di lettura e una ragion d’essere più profonda: i suoi testi semplici, diretti e universali che inneggiano all’amore, alla solidarietà, all’unità d’intenti e alla condivisione gli calzano a pennello, così come il calore rassicurante della sua musica. Una musica attuale, ma che si nutre indiscutibilmente di storia e di citazioni, nei suoni come nelle immagini: nel divertente e coloratissimo videoclip di Can’t Hide It, uno svelto r&b alla Lenny Kravitz prima maniera, Curtis, baffi alla Richard Pryor e occhialoni squadrati alla Sly Stone, si esibisce in un immaginario show televisivo anni 70 che sembra fare il verso al celebre Soul Train; nella clamorosa Hopeful, il pezzo forte dell’album, torna al bianco e nero, alle marce e ai cartelli di protesta, anche se non siamo ai tempi di Selma ma in un presente oscuro e tempestoso squarciato da un messaggio di speranza in cui non si dimentica Martin Luther King, si invoca il Black Lives Matter e si indossano mascherine anti Covid mentre una fantastica base strumentale in puro stile blaxploitation, un coro gospel maestoso e un lacerante assolo di chitarra elettrica alla maniera di Eddie Hazel dei Funkadelic incorniciano un cantato rappato che ricorda il 1° amore del musicista, l’hip hop.
Perché non è un revisionista, Harding. Forse, semmai, un retro-futurista che definisce la sua musica «slop ‘n’soul»: un saporito pasticcio sudista che come quello del concittadino Cody Chesnutt mischia ingredienti gospel, blues, r&b, hip hop, garage rock e psichedelici, che sfoggia chitarre taglienti e scattanti contrappunti fiatistici ma non disdegna i groove elettronici e l’autotune (So Low è forse il pezzo più divisivo dell’album, quello che spaccherà il giudizio tra ascoltatori di generazioni diverse). Dice di amare Bob Dylan quanto la rapper MC Lyte, Mahalia Jackson come il bluesman Albert King, ma sicuramente ha mandato a memoria la poesia da strada di maestri quali Bobby Womack e Curtis Mayfield (il concerto di fiati, cori e conga, molto cinematografico, della introduttiva title track) e lo psychedelic soul della Motown e dei Temptations, quando a produrli era Norman Whitfield.
© Matt Correia
Poliedrico e sfaccettato, If Words Were Flowers è frutto di una visione artistica che col tempo si sta facendo più audace e inclusiva: pronta ad accogliere la dolce chitarra acustica e la soffice melodia di una ballata carezzevole come With You e il trip sonoro con voce in falsetto di Explore; il gospel rock urbano di Where Is Love (con un inciso cantato come fosse uno slogan) e lo psych funk incalzante di The One; lo smooth soul di It’s A Wonder (dovrebbe piacere a Paul Weller) e il bellissimo midtempo pianistico di I Won’t Let You Down, che nel testo riflette sentimenti simili a quelli della withersiana Lean On Me. In mezzo ronzano synth e svolazzano flauti jazzati; sax vaporosi (Forever More) e vibrafoni; voci e cori carichi di echi e di effetti; percussioni afrocubane e una brusca chitarra elettrica pronta a scuotere le orecchie quando il mood sonoro rischia di diventare troppo accomodante.
«Nina Simone ha detto che è compito di un artista riflettere i tempi che sta vivendo», dice Harding mostrando di voler tenere a mente la lezione della sacerdotessa. E così If Words Were Flowers è uno specchio che rimanda temi attuali e sempiterni, inquietudini e speranze, messaggi e voglia d’evasione, attraverso un soul classico ma contaminato in cui il passato illumina il presente: slop ‘n’ soul dall’autentico sapore sudista ma comprensibile a tutti. Non è difficile farsene conquistare.