Non l’ho conosciuto personalmente. L’unica immagine che ho di Gianni Brera (1919-1992) è quella pubblica e ciò che scriveva nei libri e nei suoi articoli giornalistici. Ammetto subito una cosa: non mi è mai stato simpatico quando era vivo e non mi è diventato tale neppure da morto. Tuttavia, quando ne sentivo parlare mi sono chiesto (e tuttora mi chiedo) se di fronte alla sua continua celebrazione non fossi solo io ad avere torto nel percepirlo come antipatico.

Diciamo intanto una cosa: l’immagine che ci restituiscono i video è quella, oggettivamente, di un uomo piuttosto vanitoso e pieno di sé. Ma poteva permetterselo, Brera, essendo il più grande fra i giornalisti sportivi; ma non escludo che il tono vagamente oracolare, il suo sbandierare la verità calcistica anche quando i fatti lo smentivano, non sono elementi che possano favorire grande simpatia. Suppongo che ne fosse consapevole ma, allo stesso modo, che non gli interessasse più di tanto anche perché ormai, negli ultimi 10 anni della sua vita e terminate le guerre ideologiche “catenaccio sì/catenaccio no“, sembrava già portare a spasso il proprio monumento.

Gianni Brera nel 1974

Giusta conseguenza della sua morte è stata di valutarlo, finalmente, nei 2 suoi aspetti fondamentali: lo scrittore tout court e lo scrittore di calcio. Quanto al primo, gli va riconosciuto il ruolo di grande stilista, rappresentante di quella forma barocca di scrittura tipica di una certa corrente lombarda che vede Carlo Emilio Gadda e forse anche la Scapigliatura ottocentesca come punto di partenza e che troverà, nel ‘900, i suoi più grandi maestri in Giovanni Testori e, appunto, in Gianni Brera: poiché quest’ultimo, nutrito di buoni studi e probabilmente non estraneo all’esigenza di esprimersi in un bello stile di dannunziana memoria, sapeva scrivere e perciò ha saputo farlo di un po’ tutto. E questa abilità l’ha saputa trasferire anche nel linguaggio sportivo rinnovandolo ed elevandolo a forma d’arte a sé stante nel campo della letteratura italiana. Certi suoi articoli, quindi, meriterebbero di trovare spazio nelle antologie scolastiche; ma se usciamo dall’ambito strettamente letterario e proviamo a parlare di lui come critico e non come storico del calcio, credo se ne possano mettere in evidenza tutti i limiti che partivano dalla formazione avvenuta negli anni 30 che, piaccia o meno, si concentrava sui pregiudizi razziali, genetici e storici. Per esempio, Brera non cambiò mai idea sul fatto che i nordici, più prestanti dal punto di vista fisico poiché meglio nutriti, fossero maggiormente portati a un calcio d’attacco mentre noi italiani, perennemente in crisi di proteine, potevamo permetterci solo un calcio di contropiede, cioè d’astuzia. La cosa ha avuto un fondo di verità fino agli anni 60, meno in seguito: Brera, infatti, non comprese mai Arrigo Sacchi il quale, sostanzialmente, ha proposto un calcio ferocemente difensivista ma con un ritmo e un’aggressività che il giornalista riteneva inconcepibili per una squadra italiana.

Se leggiamo i libri dove si cerca di analizzare il calcio, storicizzarlo o privilegiare l’aspetto eroico dei suoi protagonisti, credo si possa dire che Mario Sconcerti ha certamente assimilato l’argomento più di Brera. L’altro “mostro sacro“, l’erede breriano Gianni Mura, era meno flamboyant nello stile di scrittura ma più vicino al dato umano, poiché Brera aveva il culto e dunque il rispetto per il ciclista che diventava qualcosa di sacro, ma risultava spietato e senza mezzi termini nei riguardi dei calciatori che non gli andavano a genio o magari non capiva, al punto che sorge il dubbio: i suoi appellativi da cosa nascevano? Dal piacere di sfoggiare cultura e arguzia, o da un’analisi accurata del calciatore?

Egidio Calloni negli anni 70, durante un derby Milan-Inter

È risaputo che non capì mai Gianni Rivera. O meglio, ne ammirava la tecnica, la visione di gioco e il genio, ma non sopportava una certa indolenza negli allenamenti e il fatto che non aiutasse la squadra. Ma uno come Rivera non deve aiutare la squadra, la aiuta e basta. Per Brera il giocatore ideale poteva essere Gennaro Gattuso. Nel centrocampista avrebbe rivisto ciò che lui stesso era da calciatore dilettante: non certo un fine dicitore. Quindi, nei confronti di Rivera e poi di Giancarlo Antognoni c’era forse l’invidia di ciò che lui non era stato. I suoi soprannomi hanno fatto la fortuna dei grandi attaccanti: amava i bomber coraggiosi e “spaccareti” come i Riva, i Boninsegna e i Pulici ma disprezzava Chinaglia, il centravanti più sopravvalutato degli anni 70. Converrete, però, che soprannominarlo Collo storto o Giraffone sfiora l’insulto personale.

Il peggio, però, Gianni Brara lo ha dato con Egidio Calloni, che non era affatto un fuoriclasse ma poteva stare tranquillamente  in quella “classe media” di centravanti anni 70/80 con Desolati, Magistrelli, Petrini e Luppi, ma che per un fatale errore commesso in una partita contro il Bologna fu soprannominato Lo Sciagurato Egidio. Ed era tale la fama di Brera che, a causa di quell’appellativo, Calloni divenne il prototipo del centravanti incapace mentre era un buon giocatore in grado di fare gol difficili. Ma il marchio, ormai, gli era stato affibbiato. Ho visto sbagliare gol ancora più facili a un centravanti di gran lunga migliore come Bobo Vieri, ma un Gianni Brera che lo stigmatizzasse non c’era più. Meglio così.