Appena uscito il 1° novembre 2024, A Terrible Beauty è subito schizzato al N°1 della classifica di vendita irlandese. Una consuetudine per Christy Moore, il folk singer che nell’Isola di Smeraldo rappresenta più o meno ciò che Fabrizio De André o Francesco Guccini sono (o sono stati) in Italia: cantautori generazionali e coscienze critiche (spesso loro malgrado) di una nazione.
Che poi il nuovo disco distribuito sul mercato internazionale dalla major Sony Music ma reperibile nel mercato italiano solo d’importazione porti impresso il marchio di un’etichetta storica dell’Irish Music tradizionale come la Claddagh Records, rappresenta quasi la chiusura di un cerchio per il 79enne artista di Newbridge. Ovviamente invecchiato, affaticato (al punto da avere deciso di evitare tour al di fuori dei confini nazionali), smagrito, costretto a indossare un paio d’occhiali da vista e meno focoso, travolgente e poderoso rispetto ai suoi anni d’oro. Che per lui furono in realtà anche anni da incubo, di vita intensa e selvaggia vissuta disordinatamente tra i fumi di una densa e perenne nebbia alcolica (e con il contorno di droghe di vario genere).
Christy Moore
Dopo l’infarto di cui è stato vittima nel 1987, Christy ha saggiamente alzato il piede dall’acceleratore e un passo alla volta si è totalmente ripulito, guadagnandoci in saggezza e in lucidità. Sa benissimo di cosa parla, dunque, quando in Black & Amber canta, accompagnato a cappella dal figlio Andy, di una famiglia portata sull’orlo del precipizio da un uomo che passa le giornate a ubriacarsi al pub lasciando alla moglie e al suo piccolo bimbo il compito di cavarsela da soli. È una delle crude stanze di vita quotidiana contenute in 1 disco che celebra la “bellezza terribile ” del nostro mondo e dell’Irlanda evocata da W.B. Yeats in Easter, 1916; una Terrible Beauty che prende il suo titolo dal quadro riprodotto in copertina: un suggestivo dipinto di un ex compagno di college, Martin Gale, che ritrae una stradina di campagna della contea del Kildare al tramonto, suggerendo l’“atmosfera sinistra che si cela dietro la bellezza ”.
Come Black & Amber, anche la successiva Lemon Sevens porta la firma di Brian Brannigan e proviene dal repertorio della combattiva band post punk dublinese di cui quest’ultimo è il frontman, A Lazarus Soul: accompagnato stavolta dalle chitarre, dal mandolino e dal bouzouki di Seamie O’ Dowd nonché dalle percussioni, dal bodhrán e dalle campanelle di Jimmy Higgins, Christy si cala perfettamente in una di quelle storie che sembrano scritte apposta per lui. Un breve e struggente romanzo a base d’amore e d’indigenza, di droga e disperazione, di morte e d’attaccamento alla vita vissuta dai protagonisti sull’ultimo gradino della scala sociale. Una vicenda antica come il mondo ma di tragica attualità, un folk ancestrale ma dai toni contemporanei. Perché Moore è un po’ come l’Alan Lomax che nel 20° secolo percorreva le campagne americane registrando voci e canzoni sul campo con un magnetofono; un po’ come il Cecil Sharp che nell’Inghilterra edoardiana collezionava e ordinava in volumi antologici i motivi della tradizione popolare britannica: un raccoglitore e un divulgatore di canzoni che alle melodie e alle parole che interpreta aggiunge spesso (e con il beneplacito dei compositori) qualche variazione personale, oltre al carisma di quella sua voce calda, profonda, torbata e al fascino magnetico della sua arte performativa.
Si affeziona così tanto, ai pezzi che seleziona con cura per i suoi dischi, da voler condividere con il suo pubblico, nelle note di copertina, dettagli e informazioni sulle loro origini e sui loro autori per lo più contemporanei (in scaletta, stavolta, figura un solo traditional, la ballata marinaresca d’origine scozzese Broomielaw). Lo statunitense Jim Page (già autore di 2 brani inclusi nel leggendario 1° album dei Moving Hearts), il mancuniano Mike Harding e colleghi irlandesi quali il violinista e banjoista Cathal Hayden (autore della giga strumentale The Rock), Mick Blake, James Cramer, Pete Kavanagh e il vecchio amico (recentemente scomparso) Wally Page, di cui Moore ha completato la toccante Boy In The Wild nel ricordo commosso di un padre perduto all’età di 11 anni e su cui avrebbe voluto poter contare per ritrovare la strada di casa ogni volta che sentiva d’averla perduta (sullo sfondo la sua chitarra acustica, di nuovo la voce di Andy, il piano, l’organo e le percussioni sfumate di Gavin Murphy).
Christy è un uomo attento all’attualità e a una Storia che diabolicamente si ripete; e neanche stavolta si esime dal toccare nervi scoperti, mettendo il dito su qualche piaga nazionale e internazionale: la questione mediorientale (Palestine, scritta prima dell’attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre 2023 e degli ultimi massacri nella striscia di Gaza); l’invasione dell’Ucraina (l’ipnotico recitato di Sunflower s’ispira a un fatto realmente accaduto: una donna che distribuisce ai soldati russi invasori semi di girasole, cosicché dalle loro tombe annaffiate dalle lacrime possano crescere fiori protesi verso il sole); e, naturalmente, i Troubles e il conflitto nordirlandese. Affrontati, però, con un atteggiamento riflessivo e bilanciato che il Moore di una quarantina d’anni fa, aperto sostenitore delle battaglie dell’Irish Republican Army, non si sarebbe probabilmente sognato. Nella cupa Darkness Before Dawn scritta da Kavanagh, rievoca con sincera partecipazione la antica tragedia della famiglia Doran, vittima innocente di un raid dell’IRA che proprio nella sua Newbridge, il 7 luglio 1921, prese di mira un deposito di viveri destinati alle truppe britanniche e di cui il capofamiglia era il custode.
Christy, che nella stessa via e a non più di 100 metri di distanza dal luogo dell’evento sarebbe nato 24 anni dopo, rivive con dolore le morti provocate da un incendio appiccato dagli indipendentisti, mentre in Lyra McKee il suo elogio funebre è rivolto a una giovane giornalista nordirlandese che l’Irish Times aveva definito una stella nascente, cronista impavida e intraprendente uccisa il 18 aprile 2019 a Derry da un colpo di pistola esploso durante una parata commemorativa della Rivolta di Pasqua del 1916. Un’altra tragica figura femminile – quella della studentessa 15enne Ann Lovett, ritrovata senza vita insieme al suo neonato il 31 gennaio 1984 davanti a una grotta nei pressi di Granard, nella contea di Longford – viene ricordata nel recitato di The Life And Soul (autore anonimo) riproponendo un caso che in Irlanda innescò accese polemiche e infiniti dibattiti sulle gravidanze extramatrimoniali. Moore affronta il tema con grande delicatezza: discepolo devoto di Woody Guthrie e di Ewan MacColl, da tempo ha imparato che anche le canzoni di protesta «non possono essere interpretate con rabbia», e che solo comunicando bellezza «possano toccare il cuore di qualcuno».
Lui, in questo, è un maestro. Ma non evita d’andarci giù duro né tiene a freno la lingua in pezzi come Snowflakes – un altro talking senza accompagnamento in cui se la prende con i leoni da tastiera – o Cumann na Mná, dove il suo bersaglio è Ron Wotton, giornalista sportivo di Sky, colpevole d’aver bollato di scarsa educazione civica le giocatrici della Nazionale Irlandese femminile di calcio che dopo una vittoria avevano intonato la Celtic Symphony, un popolare inno sportivo che nel testo cita l’IRA. Adattando le liriche di Mick Blake, Moore replica ricordando al commentatore inglese le ruberie, le sopraffazioni e le violenze perpetrate dalla sua nazione in India e in Africa, oltre che in Irlanda, fra genocidi sistematici e deportazioni di schiavi. Lo fa, però, al ritmo di una di quelle allegre filastrocche scioglilingua che sono una sua specialità e che dal vivo non mancano mai di scaldare e coinvolgere il pubblico (ne è un altro esempio The Big Marquee, ode a un locale di Cork in cui ama esibirsi e riappare con frequenza).
Ascoltarlo, ogni volta, è come sfogliare le pagine di 1 quotidiano o di 1 libro di storia. Eppure non c’è nulla di declamatorio, nulla di arido in questa successione di date, luoghi, eventi, nomi e cognomi: in un disco sommesso e malinconico come A Terrible Beauty, oltre alle sue ben note qualità di storyteller emergono con forza il pathos, la partecipazione, la compassione e l’umanità di un artista che a quasi 80 anni crede ancora a ogni singola parola che pronuncia e che canta. È vita – individuale e collettiva – che si fa arte popolare, e viceversa. E quando ci si immerge in questo suo mondo (che è anche il nostro) a volte si compie un piccolo miracolo. Se ne esce un po’ diversi e più consapevoli, forse persino più compassionevoli e addirittura migliori.