La maestosa facciata in mattoni rossi, i balconi di ferro battuto e le “bow-windows” in stile gotico/vittoriano l’hanno sempre contraddistinto dagli altri edifici di New York. Ma ora lo stanno ristrutturando, il Chelsea Hotel. Solo 80 residenti da un’eternità continuano ad abitarlo noncuranti delle impalcature. “Restoration and renovation is underway”, c’è scritto sul sito. “Reopening 2015”, è la promessa. Il rischio, dopo l’acquisizione nel 2011 da parte del Chetrit Group per 80.000.000 di dollari e la cessione a Ed Scheetz, responsabile di una catena alberghiera a 5 stelle, è una nuova pelle da ennesimo “boutique hotel”. E addio leggenda. Già, perché se i muri del Chelsea Hotel potessero parlare, narrerebbero vite “bohémiennes”, pagine letterarie inzuppate di whiskey, angeli della controcultura, demoni del rock. 12 piani, costruito nel 1884 sulla 23a Strada Ovest come uno dei primi esperimenti di “housing” (appartamenti in cooperativa) ispirato alle idee del socialismo utopista di Charles Fourier, è diventato “il” luogo leggendario di New York che la giornalista e scrittrice americana Sherill Tippins racconta con piglio biografico nel volume Chelsea Hotel. Viaggio nel palazzo dei sogni. Esordendo così: “Alla fine ci è voluto un fulmine, e non certo metaforico, perché il Chelsea mi apparisse di nuovo, una sera d’estate, nel bel mezzo di un acquazzone improvviso, mentre superavo con un balzo una pozzanghera all’angolo tra la 23a Strada e la 7a Avenue. Quel lampo biforcuto di luce mi ha spinto ad alzare gli occhi in tempo per cogliere una fugace immagine del Chelsea in tutto il suo gotico splendore, stagliato contro il cielo di Manhattan sconvolto dal temporale. In cima al tetto grandi alberi agitavano i rami nel vento come donne in pericolo che sventolano fazzoletti. È stato un attimo sin troppo intenso, ma ha funzionato. Per la prima volta in decenni mi sono fermata sul serio, in mezzo alla strada, e ho visto il Chelsea Hotel”.
Cantato e declamato, l’albergo degli intelletti visionari e delle vite sgualcite si meritava almeno l’obbligo di una visita in una di quelle camere che il drammaturgo Arthur Miller paragonò da un punto di vista stilistico «al guatemalteco, forse, o alla periferia del Queens». Su per le scale, lungo i corridoi e nella hall, grumi di quadri si portavano appesi i ricordi di quegli artisti che avevano barattato una tela in cambio di una notte da non trascorrere sotto i ponti. Gli “action painters” Jackson Pollock e Willem de Kooning avevano soggiornato qui. Sempre qui, negli Anni ’60, zoomando da una camera all’altra, Andy Warhol e i “dropouts” della sua Factory (fra cui Nico la “chanteuse” dei Velvet Underground, la tossica Brigid Berlin e la “drag queen” Mario Montez) avevano girato The Chelsea Girls. E poi Daniel Spoerri, impegnato ad appendere i suoi “quadri-trappola” colmi di resti di cibo e mozziconi di sigaretta; Arman, che la sua stanza l’aveva riempita sino all’orlo di rifiuti; un Allen Jones sempre più feticisticamente votato alla Pop Art; e Jean TinguelyNiki de Saint Phalle, l’impacchettatore Christo e sua moglie Jeanne-Claude. C’era anche Bob Dylan, nel ‘66, con Sara. In una camera al terzo piano aveva composto la canzone Sad Eyed Lady Of The Lowlands, destinata a chiudere l’album Blonde On Blonde. E c’erano passati Jimi Hendrix (stava prendendo una stanza alla reception, quando un turista bianco di mezza età lo scambiò per un facchino ordinandogli di portare di sopra i bagagli); Joni Mitchell (è sua la canzone Chelsea Morning); Janis Joplin che esclamò: «Mi piace il Chelsea. Ci abitano parecchi miei amici e succede sempre qualcosa di divertente. Somiglia a una comune californiana. Solo che costa un po’ di più»; Leonard Cohen, che proprio con la cantante texana trascorse una notte d’amore per poi comporre Chelsea Hotel #2; i Grateful Dead, che nell’agosto del ‘67 ci suonarono sul tetto; Patti Smith, il fotografo maledetto Robert Mapplethorpe e il rocker Jim Carroll, considerato da Patti «il miglior poeta della sua generazione». Nella stanza numero 100, era il 1978 quando trovarono accoltellata Nancy Spungen, la ragazza di Sid Vicious, bassista dei Sex Pistols.
Accanto alla porta d’ingresso di questa “fantasilandia comunitaria” (definizione di Arthur Miller) c’erano targhe che celebravano i Chelsea residents a breve e a lungo termine. “La gente diceva che al Chelsea accadevano magie”, scrive Sherill Tippins. “Per circa 10 dollari alla settimana si poteva affittare una stanza accanto a Edie Sedgwick o perder tempo sul tetto con Allen Ginsberg. Con i vicini si condividevano idee, musica, denaro, vestiti, cibo cucinato sulla piastra elettrica e, a essere fortunati, forse anche un letto. Più si era fuori dal sistema, più si era dentro a questo posto”. La letteratura, in questo crocevia artistico, ha messo radici soprattutto negli Anni ’50 esibendo i propri dannati geni: William Burroughs, impegnato a scrivere The Naked Lunch e Jack Kerouac a porre le basi di On The Road; gli altri “beatniks” Gregory Corso e Lawrence FerlinghettiNelson Algren e la sua “streetwise novel” intitolata A Walk On The Wild SideArthur C. Clarke, che solo qui riusciva a concentrarsi su 2001: A Space Odyssey; Arthur Miller, che al Chelsea trovò il domicilio ideale per il semplice motivo che non doveva indossare lo smoking per ritirare la posta alla reception, come capitava al Plaza Hotel. E ancora: Dylan ThomasBrendan BehanEdgar Lee MastersThomas WolfeVladimir NabokovEughenij Evtucenko… Del Chelsea sarà impossibile cancellare certe atmosfere: l’andirivieni di pittori, creativi, fotografi e musicisti; quel pugno di clienti che ci viveva dentro da una vita; le camere dove il tempo si era letteralmente fermato; i mini appartamenti con uso cucina. Quando osserverete New York dalla finestra, capirete perché non potrà mai rinunciare al Chelsea Hotel. E viceversa.
Sherill Tippins, Chelsea Hotel. Viaggio nel palazzo dei sogni, EDT, Collana La Biblioteca di Ulisse, 536 pagine, € 23