Non è e non sarà mai un batterista pirotecnico. Non ama gli “effetti ” e i trucchi. Bada al sodo e lo fa con una coerenza e una preparazione musicale a 360°, spaziando fra i generi e restando fedele all’idea di “drumming ” a tutto campo. Da qualche anno, ormai, Brian Blade (classe 1970, nato a Shreveport, in Louisiana) siede con merito sul trono della batteria jazz.
Il suo contributo all’evoluzione del linguaggio batteristico è sotto gli occhi di tutti; e non smette di stupirci la sua propensione a migliorarsi, espandendo le capacità espressive di uno strumento erroneamente considerato solo fonte di ritmo. Ricordiamo, inoltre, il suo fondamentale contributo a opere di formazioni così diverse fra loro eppure accomunate dalla ricerca dell’eccellenza, come il quartetto di Wayne Shorter, il trio di Chick Corea, il combo di Joshua Redman e Brad Mehldau, il trio di Wolfgang Muthspiel, il sestetto Fellowship. E ancora Joni Mitchell, che reputa Blade il miglior batterista con cui abbia mai collaborato; Norah Jones e Bob Dylan, che lo collocano ai vertici del percussionismo per la capacità di reiventarsi a ogni incisione e in ogni concerto, adattando il proprio stile al jazz e a qualsiasi altra musica.
Brian Blade
Già, perché per diventare il batterista di riferimento non basta essere bravi e avere swing; ci vuole quel “quid ” in più che si chiama fantasia: nel miscelare ad arte i chiaroscuri, le ombre, gli accenti; nell’irrompere con una rullata potente; nel sottolineare il tutto con un delicatissimo gioco di spazzole e di piatti; nell’accentuare la frase ritmica, oppure lasciarla sottintendere in modo che sia il solista a prendersi la scena, ben supportato da un ritmo incalzante e mai banale. Del resto Brian Blade è nato in una famiglia di musicisti e il suo destino di drummer era quindi già scritto fin dall’infanzia. E anche suo fratello, Brady, è un eccellente batterista.
Il suo nuovo, doppio album intitolato Lifecycles Volumes I & II – Now! And Forevermore Honoring Bobby Hutcherson (Stoner Hill Records), rende omaggio al più grande vibrafonista della storia (non me ne voglia Gary Burton, ma il suo stile è spesso stucchevole e ripetitivo), ingiustamente dimenticato e spesso denigrato per le sue scelte radicali (come quando ha affiancato il suo gruppo a un quartetto di voci femminili; o quando si è gettato a capofitto nel funk), che ha avuto il merito di accostare il suo vibrafono a musicisti rivoluzionari quali Archie Shepp, Eric Dolphy (fondamentale nel capolavoro Out To Lunch!), Herbie Hancock, Andrew Hill e a tutta quella parte di catalogo Blue Note che dagli anni 60 ha cercato una nuova via espressiva. I brani selezionati provengono da incisioni con Grachan Moncur, Harold Land, Joe Chambers e il 1° disco è un tuffo in quel magico periodo in cui la sperimentazione, il coraggio e la sfrontatezza delle idee la facevano da padroni.
Myron Walden, Jon Cowherd, Brian Blade, Doug Weiss, Monte Croft, Rogerio Boccato, John Hart
5 pezzi, in particolare, ci riportano a incisioni leggendarie: specie quel Now! che ha consacrato Hutcherson (il cui senso del blues e della tradizione lo poneva ai vertici del suo strumento) fra i leader della rinascita nera e dell’affermazione dei diritti civili degli afroamericani. Composizioni di una bellezza commovente, di una toccante poesia e di un’energia travolgente suonati da un ensemble impeccabilmente guidato dalle bacchette di Blade, dove spiccano accanto a Dough Weiss (basso), Rogerio Boccato (percussioni) e John Hart (chitarra) il vibrafono di Monte Croft, il sassofono di Myron Walden e il pianoforte di Jon Cowherd. Nel 2° album, invece, quelle atmosfere e quei suoni vengono riportati ai giorni nostri e il risultato è ancora più sorprendente, con quello spirito anni 60 ma dal taglio contemporaneo, a testimonianza di come la grande musica abbia l’indiscutibile pregio di essere atemporale.