Erano un gruppo revisionista e retromaniaco, i Black Crowes, in quel 1992 che oltre a loro vide avvicendarsi in testa alle classifiche americane il grunge furibondo e disperato dei Nirvana, l’r&b luccicante e ultramoderno di Michael Jackson e di Whitney Houston, il metal dei Def Leppard, l’hip hop dei Kris Kross e di Ice Cube, l’easy listening di Michael Bolton, il country di Garth Brooks e Billy Ray Cyrus? No, Chris e Rich Robinson, fratelli litigiosi come da perfetta tradizione rock, erano semmai dei pastori zelanti anche se eterodossi del Verbo Sacro della American Music, e Southern Harmony And The Music Companion era il loro libro liturgico per l’ultimo decennio del 20° secolo, come quel famoso breviario di inni compilato nel 1835 da William Walker da cui prendeva il nome.

Certo, suonavano diversi da qualunque altra cosa ci fosse in giro in quel momento nel circuito mainstream e virtualmente fuori tempo massimo, fratelli minori dei Rolling Stones e dei Led Zeppelin, dei Lynyrd Skynyrd e dell’Allman Brothers Band (sudisti come loro, georgiani di Atlanta); ma anche dei Faces di Rod Stewart e degli Humble Pie di Steve Marriott con cui avevano fatto la conoscenza grazie al produttore d’origini greche George Drakoulias, fidato braccio destro di Rick Rubin che li aveva messi sotto contratto alla Def American e li seguiva con attenzione in studio di registrazione. Già il loro 1° disco, Shake Your Money Maker, aveva messo le cose in chiaro rubando il titolo a uno standard blues di Elmore James e facendo il botto con 5.000.000 di copie vendute negli Stati Uniti; mentre il suo successore confermava a partire dal lettering e dal colore della copertina, marrone seppiato come il mitico 2° album della Band (anch’essa dedita alla riscoperta delle radici, anch’essa spavaldamente controcorrente rispetto allo spirito del tempo), la prosecuzione di un percorso che solo all’apparenza, cifre alla mano, era controcorrente; segnalando invece (insieme al grunge che spirava impetuoso da Nord Ovest, Seattle e dintorni) come dopo la sbornia synth pop degli anni 80 fra i giovani ascoltatori c’era di nuovo voglia di una musica dichiaratamente ispirata ai 70 e suonata con le chitarre a tutto volume.

The Black Crowes
© Ian Dickson/Redferns

Alla stampa, intanto, Chris Robinson ribadiva che il suo gruppo non aveva una formula da seguire: «I Black Crowes», diceva, «sono interessati alle cose comuni che tutti gli esseri umani condividono, a ogni genere di esperienza. Dalla prima volta in cui ti masturbi, al primo incidente automobilistico in cui ti ritrovi coinvolto». Con gli occhi e le orecchie aperte a quel che gli succedeva intorno, come quando si recarono a Los Angeles per registrare Southern Harmony proprio mentre in città esplodevano i tumulti conseguenti al brutale pestaggio dell’afroamericano Rodney King da parte della polizia. «Ce ne stavamo lì seduti a guardare le notizie in tv, e gettando lo sguardo fuori dalla finestra dell’hotel vedemmo L.A. bruciare. A essere onesti non ne fui molto sorpreso, né mi sentii particolarmente infuriato. Insomma, era una cosa destinata a succedere. È quel che accade alla gente che ancora gioca con la paura, l’ignoranza e la manipolazione».

Da lì nasceva una canzone come Sting Me, il pezzo di apertura dell’album che in qualche modo incitava alla rivoluzione nelle strade e stigmatizzava il comportamento dei politici al potere mescolando hard rock e Southern rock, Rod the Mod con Delaney & Bonnie, quando alla chitarra solista c’era Eric Clapton. Era 1 dei 4 assi calati sul tavolo da quei bari da film western; 1 dei 4 singoli che superando il record precedente detenuto da Tom Petty, arrivarono al vertice della Album Rock Tracks di Billboard: traguardo raggiunto anche dal febbrile, irresistibile soul rock di Remedy, che prendeva posizione contro la “sciocca ” guerra alle droghe lanciata dal governo americano e da una ballata sofferta e acuminata come Thorn In My Pride (una riflessione sul lato oscuro delle relazioni umane e sentimentali aperta da una chitarra acustica, un organo e una slide), che con Sting Me formavano un tris iniziale da ko; oltre che da Hotel Illness, riff stonesiano e armonica utilizzati per dipingere un quadro di desolazione esistenziale ed esprimere un anelito di libertà nel momento in cui le mura di una stanza d’albergo in un posto imprecisato del mondo assumevano i contorni di una prigione.

Lì e in tutto il resto del disco i Black Crowes forgiavano un sound crudo, torrido, per nulla schematico; tremendamente sexy ed eccitante, che l’eccellente rimasterizzazione di questa ristampa (box set di 4 Lp o di 3 Cd, oppure doppio Cd con una selezione più ridotta di bonus tracks e di outtakes) ti spara dritto in faccia con tutta la sua potenza di fuoco la voce salmodiante, l’estensione e il timbro roco alla Rod Stewart di Chris, il fratello Rich che (come sottolineano le note di copertina) si prodiga con “un enorme assortimento di chitarre, ad altissimo volume sull’altoparlante sinistro ”; l’ostinato e agile percuotere i tamburi di Steve Gorman; Johnny Colt che aziona le corde del basso come i pistoni di un motore a scoppio; le incisive sottolineature del piano e del Wurlitzer B-3 del nuovo arrivato Ed Hawrysch alias Eddie Harsch e, last but not least, la sei corde solista di Marc Ford sostituto del licenziato Jeff Cease a svisare sul canale destro (con Chris Trujillo a dare una mano alle congas, Barbara Mitchell e Taj Harmon ai cori).

Nel soul bianco e sudista di Bad Luck Blue Eyes Goodbye, il mal di vivere e la sofferenza sono mediati da un sentimento di speranza; la bellissima Sometimes Salvation offre redenzione e riscatto a tempo di blues incrociando i Rolling Stones di Let It Bleed e Sticky Fingers con i Led Zeppelin del periodo Physical Graffiti/Presence; Black Moon Creeping, è un SOS lanciato da una voce e un’armonica lancinante su un incalzante tappeto boogie rock. In No Speak No Slave, il suono delle chitarre diventa più duro e cattivo mentre l’ugola di Chris si arroventa nel pronunciare la sua fiera dichiarazione d’indipendenza anche e soprattutto nei confronti delle pressioni dell’industria discografica, mentre My Morning Song, con una slide che sembra suonata da Jimmy Page, celebra la nascita di un nuovo giorno e la (effimera?) vittoria contro le tenebre e i demoni interiori. Forse è proprio quella ricerca di verità e di rigenerazione a indurre il gruppo a concludere il disco con una rilettura spontanea, acustica e semi improvvisata di Time Will Tell di Bob Marley, il reggae giamaicano che incontra il gospel del Sud degli States elevando su un piano più alto, spirituale, un disco carnale ma anche decisamente introspettivo.

Che i Corvi ci sapessero fare con le cover lo dimostrano, nelle nuove versioni expanded di Southern Harmony, una focosa e rockeggiante rilettura di 99 Pounds di Ann Peebles, una rivisitazione di Boomer’s Story di Ry Cooder e una rielaborazione in chiave boogie di Rainy Day Women # 12 & #35 di Bob Dylan, tutte suonate spontaneamente in studio dalla band durante l’ultimo giorno trascorso in sala di incisione. Che fossero (e in buona parte siano rimasti) una straordinaria live band, lo confermano le torride esecuzioni dal vivo di pezzi come Thorn In My Pride e Sometimes Salvation Qualcuno non la capisce ma noi sì», la introduce il frontman sul palco di Houston, in Texas, il 6 febbraio del 1993), ma soprattutto gli 11 minuti e ½ di Remedy, con un lungo intermezzo parlato e “rappato ” durante il quale un Chris Robinson in trance nei panni del predicatore rock infervorato svela senza freni il segreto dei Black Crowes: con un ardore, uno slancio e un impeto inauditi ai quei tempi, lui e la band ci immergevano di nuovo nelle acque sacre della “musica delle radici ”, sottoponendoci a un nuovo battesimo proprio nel momento in cui la chiesa dell’American Music più classica e tradizionale sembrava essere stata abbandonata anche dagli ultimi fedeli e incapace di reclutare nuovi adepti.

I fratelli Robinson (che gli dei del rock li benedicano) ci dimostrarono allora che non era così, confermando come nelle mani di musicisti consapevoli del passato come del presente, la musica popolare più autentica sappia risorgere ciclicamente dalle sue ceneri superando barriere geografiche e generazionali. Prendiamolo come buon auspicio per il 2024 e per gli anni prossimi venturi.