In occasione dell’uscita del nuovo album in studio intitolato sic et simpliciter Who (che di per sè è già un mega evento dato che il disco precedente, Endless Wire, è del 2006), mi sento in dovere di scrivere 2 righe sul più funambolico – anche se è una minimizzazione – fra i batteristi rock. «Il mio nome è Keith per gli amici, ma tu puoi chiamarmi John», è una delle tante battute pronunciate da Keith Moon (1946-1978) negli show televisivi, in spregio al conduttore “bacchettone”, all’epoca in cui ti chiamavano per far salire l’audience del programma, non per ottenere visibilità.

Ascoltando Who mi sarei aspettato subito le mega rullatone infinite di Keith coadiuvate (aggiungerei ispirate, talvolta) dall’altrettanto funambolico John Entwistle, bassista sopraffino. Ma mi tocca purtroppo scendere ai pianterreni e riconstatare la dura realtà: Keith & John, continuate a riposare in pace nel Paradiso delle migliori basi ritmiche di sempre… Già, perchè gli Who sono riusciti a fare un lavoro che segue il precedente, in senso stretto, poichè sembra inciso 1 anno dopo: voci impeccabili, suoni vicini a quelli dell’epoca – gli anni 70! – pezzi dolci e cattivi allo stesso tempo. Quindi ti aspetteresti proprio quella batteria lì. Che però non c’è più. In effetti neanche il basso, ma qui si parla di Keith Moon: un asfaltatore, per usare termini volgari in auge ai nostri giorni.

Per cui abbiamo da un lato le consuete, amate voci e chitarre; dall’altro una base ritmica moderna, piacevole, scorrevole, perfetta in ogni dettaglio. Che perdita! Meno male che Roger Daltrey e Pete Townshend sono Dinosauri del Rock e bastano da soli a sfornare un disco di qualità molto sopra la media. Inoltre lo stile di Keith così personale, irripetibile, in costante variazione (pure di metronomo, ma è un piacere ascoltare il talento puro di un artista e il suo feeling in quella determinata situazione) non verrà più neanche eguagliato, complici le nuove tecniche di registrazione che a discapito della personalità valorizzano la precisione e la coerenza sullo strumento. Potrebbe insomma venirci un attacco di disperato, ma autentico pianto.

Se si sostituisse Charlie Watts nei Rolling Stones, per esempio, si otterrebbe lo stesso scempio artistico-musicale. Con i Led Zeppelin è stato ancora più evidente (r.i.p. John Bonham). La fine di Keith Moon è purtroppo anche la fine di uno stile che, pur essendo ancora utilizzato in particolari situazioni jazz – soprattutto quelle di stampo antico – e a volte nemmeno in quelle, per la musica pop e rock si è estinto coi risultati che sono sotto gli occhi e gli orecchi di tutti. E qui chiudo, per non aprire la porta sulle problematiche evolutive di un mondo musicale moderno, in antitesi con le concezioni, la crescita e l’abilità artistica di uno dei più grandi drummer della storia.