Diretto da Elio Espana, il documentario Banksy – L’arte della ribellione che potete vedere al cinema (coronavirus permettendo) dal 26 al 28 ottobre, segue le orme del più celebre e iconico street artist dei nostri tempi. È intrigante il punto di vista del regista, il quale si sofferma sulle origini di Banksy nella scena socioculturale inglese di fine 20° secolo; e su ciò che può averlo persuaso a scegliere l’anonimato in una società dove apparire è quasi sempre l’unica aspirazione.

Nasce a Bristol a metà degli anni 70 e cresce in pieno thatcherismo. Città portuale, in quel decennio stava faticosamente riemergendo dalle macerie del secondo conflitto mondiale. Le conservatrici e liberali politiche economiche di Margaret Thatcher (depotenziamento dei sindacati, pool tax, deregolamentazioni, privatizzazioni) non fecero che aumentare il malcontento e la povertà delle classi meno abbienti, con il tasso di disoccupazione quadruplicato. In tutta la Gran Bretagna la situazione era esplosiva: il Fronte Nazionale dell’estrema destra (cui molti hooligans appartenevano) stava facendo proseliti, i poveri erano sempre più poveri, le manifestazioni di piazza più numerose e meno pacifiche. È in questo clima che avviene la formazione di Banksy.

Barton Hill Youth Center di Bristol. John Nation è l’assistente sociale che lo gestisce e ha a che fare con potenziali delinquenti, senza uno straccio di futuro, che trascorrono le giornate imbrattando muri e sfuggendo alla polizia. Dà l’opportunità, John, ad alcuni di loro di utilizzare i muri del centro dando sfogo alla creatività. In breve tempo, Barton Hill diviene il punto di ritrovo dei graffitisti bristoliani; e un giovanissimo Banksy passa i pomeriggi a guardare e a imparare dai più bravi l’arte dei graffiti. Sulla scia dell’hip hop, del reggae e dell’afro che giungono da New York, iniziano a formarsi i primi collettivi musicali e artistici: The Wild Bunch, per fare un esempio, con in prima linea 3D aka Robert Del Naja, writer e poi leader dei Massive Attack, orientamento trip hop.

Le repressioni thatcheriane non tardano ad arrivare. Alla fine degli anni 80 decine di ragazzi vengono arrestati e anche John Nation viene segnalato alle forze dell’ordine. A New York, nel frattempo, Jean-Michel Basquiat e Keith Haring non solo fanno entrare l’arte di strada nelle gallerie più prestigiose, ma ne ricavano parecchi dollari. Quelle che erano solo scritte con l’unico scopo di diffondere il proprio nome da writer sul maggior numero possibile di muri, inglobano immagini trasformandosi in arte fruibile da tutti. Nasce la Street Art e finalmente Banksy trova una sua collocazione. Sempre in giro con Ben Eine e Steve Lazarides, con gli stencil sottobraccio che gli consentono di finire velocemente un’opera senza che la polizia riesca a interromperlo, il nome Banksy inizia a essere notato in tutta l’Inghilterra: la sua firma spicca su ponti, strade, treni, muri.

Ben Eine è un writer bristoliano come lui, Steve Lazarides è un promotore d’arte. Insieme a loro, Banksy mette a segno blitz nei musei più famosi al mondo. I 3 entrano, e mentre Eine distrae le guardie, Lazarides filma Banksy mentre appende una sua opera: tipo Show Me The Monet,  accanto all’originale. Evidenti, già allora, l’ironia e la capacità di comunicare anche utilizzando elementi dissonanti per rendere ancora più sarcastico il messaggio finale. Ed è così che si sbeffeggia il mondo dell’arte, ormai vecchio e ingessato. Seguono le mostre/performance artistiche realizzate in Inghilterra (incluso l’appuntamento fisso al Dragon Bar di Londra), i lavori in Cisgiordania a tema conflitto israelo-palestinese e l’esposizione kolossal di Los Angeles, quando diventa chiaro che possedere un “Banksy” equivale a essere invitati dalla Regina.

Tutti lo vogliono. E allora, sempre di più, lui (metaforicamente) fugge via: vende la propria produzione per pochi dollari su una bancarella a Manhattan; davanti all’occhio incredulo di compratori e banditori, riduce in 1.000 striscioline The Girl With The Balloon appena battuta all’asta da Sotheby’s per circa 1.000.000 di sterline.

Banksy è un anticonformista, un outsider, un individuo che suo malgrado non ha mai accettato il mondo di cui fa parte. Ognuno di questi tratti caratteristici è evidente nella sua produzione artistica: ad esempio i topi che ricorrono nelle sue opere. Roditori che ricordano quelli del graffitista francese Blek Le Rat, emergono dal sottosuolo per combinare ogni volta qualche guaio. Il riferimento, non così nascosto, va a sé stesso e al suo gruppo di compagni che uscivano nottetempo per andare a dipingere qualcosa. E poi ci sono i bambini colpiti da guerre e povertà, che malgrado tutto mantengono intatta la loro purezza riuscendo perfino a giocare tra i cumuli di macerie.

Banksy, piaccia o meno, ha cambiato profondamente il mondo dell’arte e la sua fruizione. La sua forza più grande? Non avere alcun bisogno di quel mondo, essendosene creato uno che funziona a propria immagine e somiglianza. E tutti gli altri? Si impongano!