Vi offriamo in anteprima il 1° capitolo di Una donna fa l’uomo bello, il nuovo romanzo di Sergio Cioncolini. Fra le altre sue pubblicazioni, edite da Pendragon, ricordiamo Il mio nome è Libero Nonconsumo (2008), Male di nuvole (2009), Il cortile del diavolo (2011), I giorni corti (2012), Andava a veder morire i piccioni (2014), L’albero delle bionde (2015), Un’isola sottovento (2016), Un coltello di ceramica verde (2018), Danni collaterali (2019), Vacanza di sangue (2020).

 

Ugo è un uomo solo. Ha quarantasette anni e non ha moglie, né figli. Vive nella società della comunicazione, ma non ha affetti. Non parla con i suoi simili e nemmeno li ascolta. Legge tanti libri, vede un po’ di televisione, ma è disperatamente solo. Lavora in un’azienda da una vita, tra colleghi estranei che si burlano della sua solitudine, e possiede una pompa di benzina. Al suo dipendente non riesce a dare del tu. Frequenta una chiesa con un oratorio e tanti ragazzi, ma non è accettato. Ha una pistola e un balcone pieno di gerani. Prende tranquillanti per dormire e detesta i cani che scorrazzano sotto la sua casa e sporcano la città. Poi, il suo cuore comincia a fare tum tum. Uno scherzo cattivo. Tum tum. Un incontro. Tum tum. Sorprese e scoperte inaspettate. Tum tum. La vita cambia, si colora. Tum tum.

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Ora sto qua seduto, ma alla prossima fermata dovrò scendere. Alla mia sinistra siede una vecchia signora dall’aspetto dignitoso, minuta, chiusa dentro un lungo soprabito giallo. Proprio chiusa, nel senso che la palandrana gialla le scende ingabbiandola fin quasi ai piedi. I quali sembrano finti, per via delle scarpette tipo mocassino che li contengono, identiche, di colore marrone con fibbia metallica, appaiate con precisione millimetrica, tanto da sembrare incollate come quelle dei manichini. Le ho lanciato un paio di svelte occhiate per via che mi incuriosiva. Ricorda proprio un vecchio manichino, di quelli che si tengono in solaio a coprirsi di polvere. A destra preme un ragazzotto sui vent’anni, corpulento, con jeans e giubbotto nero. Anche sul collo ha una macchia nera. È un tatuaggio del quale si scorge soltanto la parte terminale. Nera. Non si capisce che cosa rappresenti. Siede a gambe larghe. Il giovanotto, non il tatuaggio. Cosicché sono costretto a strizzarmi come un’acciuga per non sentirmi contro la sua grossa coscia. Guarda fisso davanti a sé, ma non pare che osservi qualcosa. Tiene le labbra leggermente aperte. Tutto sommato ha un’espressione un po’ tonta, ma non posso dire altro poiché l’ho guardato appena un istante, di sfroso.

Il contatto con altri corpi mi turba. È sempre stato così, per quanto ricordi. Altri corpi di uomini, voglio dire. Di maschi. Per quanto riguarda eventuali corpi femminili, la mia esperienza in materia è prossima allo zero.

Torniamo al ragazzotto che mi siede accanto. Dopo alcuni istanti di tesa immobilità, sto parlando di me, gli occhi spinti alla strada che se ne va via col tram, il sangue prende a correre. Lo sento pulsare alle tempie. A questo punto la spinta ad allontanarmi diventa fortissima. Fatico non poco a restarmene lì seduto. Potrei anche alzarmi e spostarmi altrove, nessuno me lo impedirebbe, credo. Tuttavia non mi alzo. Chissà perché. Forse è per via di eventuali conseguenze, sempre possibili. Devo comunque staccarmi dall’invadente giovinastro. Dentro un colpo di tosse mi restringo ancora un pelo, tanto da concedermi un di più di respiro.

Volgo il capo a lato. C’è un lieve odore di naftalina vicino alla vecchia signora, stemperato dalla presenza di residui diversi, familiari direi. Che mi accompagnano la mente in vecchi luoghi conosciuti. Scorgo un annoso palazzo, un ascensore di legno scuro con tanti vetri per pareti, imprigionato entro scure grate metalliche. Muri giallastri, una rampa di scale in ombra. Ballatoi con porte scure, due per piano. Appartamenti con lunghi corridoi in ombra. Grandi stanze con alti soffitti. Mobili e parquet tirati a lucido, sporcati da antiche macchie irriducibili alla cera. Il parquet crocchia come pane secco. C’è una stanza da bagno da qualche parte, piastrellata di bianco. Un lieve odore di ammoniaca interessato da timide molecole di orina svolazza tranquillo nell’aria spenta. È un luogo che ricorda da vicino la mia casa. Mi piace la vecchia signora. La osservo un istante un poco più lungo dei precedenti. Pare assorta in lontani pensieri. Ha le pelle smorta, tenuta su da un reticolo di rughe che formano tanti quadratini tutti uguali. Un reticolo, appunto. È un’immagine gradevole, nel complesso. Intendo dire che mi piace osservarla, anche se non ne capisco il perché. Non le ho ancora scorto gli occhi perché li tiene bassi, fermi sopra se stessa, sopra il lungo soprabito giallo che la contiene.

C’è un tale a bordo del tram, tra gli altri passeggeri. Un uomo corpulento. Involtato in un giaccone liso pare un sacco scaricato male. È di colore marrone scuro. Si tratta di un giubbotto con certi rimasugli lucidi qua e là, simili a isolati lustrini. Puzza. Non ne sento l’odore perché è lontano. Però sono sicuro che puzza. Puzza di vecchi, ripetuti sudori. Ci scommetterei. L’omaccio si è mezzo intrufolato nell’abitacolo del manovratore. Gli spenzola sopra il capo. Sembra avergli appena sussurrato qualcosa all’orecchio, oppure è sul punto di farlo. È uno che se ne frega dell’invito, ben visibile sopra la sua testa, di non parlare al conducente. Forse si conoscono. Magari è un collega fuori servizio. Mi alzo. Il giovinastro al mio fianco s’alza anche lui. Mi precede verso l’uscita. Sento la vecchia muoversi dietro di me. Scendono tutti alla mia fermata. Quel tale accanto al manovratore impegna metà porta. Siamo in parecchi a voler scendere alla prossima fermata. Alcuni muovono gesti impazienti. Già percepiscono l’ingorgo che di lì a poco ostacolerà la loro discesa. La vecchina e il giovinastro li sento dietro di me. Nessuno fiata.

Uno scoppio d’aria compressa spacca la tensione. La portiera si spalanca sull’esterno. Saltano il gradino uno alla volta, girati malamente in costa per evitare urti con quel tale del giaccone. Scende il giovinastro. Sfrega l’addome contro il deretano di quel tale del giaccone, che non fa un verso. Dopo di lui cedo il passo alla vecchina in giallo, che discende agevolmente. È il mio turno di scendere. Mi coglie un improvviso prurito alla nuca, fastidioso. Tiro su il fiato, ma non mi gratto. Provo ad assumere un’aria svagata, nel senso che alzo la fronte e guardo il cielo di sopra, che è tutto grigio. Quindi, rivolto al vuoto davanti, mormoro che la discesa si farebbe più spedita se qualcuno liberasse la portiera. Finisco via in un sussurro quasi roco, quasi parlassi tra me e me, mentre i piedi toccano terra presso una pozzanghera. Mi prende uno spasmo allo stomaco, una specie di sussulto. Non mi sarei mai reputato capace di una simile uscita. Che cavolo mi succede? Sollevo il capo abbastanza stremito. Quel tale del giaccone mi studia, gli occhi sfessurati contro un sole che non c’è. Sotto il giaccone indossa una camicia a quadri bianchi e rossi. Dalla camicia aperta sul petto fuoriesce un crocefisso d’oro, o similoro, infilato in una grossa collana. È più una catena che una collana. Sarà lungo cinque o sei centimetri, il crocefisso. Sto per chiedermi quale tipo di rapporto esiste tra l’omaccio e il Cristo in croce che si porta al collo, ma mi rendo conto che non è il momento per simili considerazioni. Anche il manovratore si volge a guardarmi. Pare infastidito. Ha gli occhi iniettati di sangue, le guance gonfie e due borse livide in luogo delle occhiaie. Forse è iperteso. Ho l’impressione che si somiglino, lui e quell’altro che gli grava sopra. Potrebbero essere fratelli.

L’uomo dal giaccone liso continua a fissarmi senza espressione, gli occhi sempre sfessurati a protezione di un sole che non c’è. Poi emette un sussurro tipo il mio di poc’anzi, le labbra pressoché immobili. Un sussurro catarroso, lo chiamerei.

«Fatti i cazzi tuoi…».

Col manovratore scambia un’occhiata complice. Sembra avere tratto vigore dalla volgarità che mi ha rifilato, poiché raddrizza le spalle e assesta il collo nel brutto giaccone. Un’espressione ora ce l’ha stampata in volto. Quella di uno sgravato di un peso, o meglio di uno cui abbiano sfilato una lisca dalla gola. Ha le guance gonfie e le borse sotto gli occhi che sembrano piene d’acqua. Ecco dove sta la somiglianza col manovratore che mi ha fatto pensare a due fratelli. Magari è iperteso anche lui. Sulle guance gli cresce una barba a pezzi bianchi e neri, vecchia di almeno due giorni. L’uomo è sui quaranta. Forse qualcuno in meno, ma è la trasandatezza del soggetto che aiuta a invecchiarlo. Indossa dei jeans attillati, come usano oggi, dietro ai quali preme un addome a punta. Presso l’inguine, a destra, la sua destra, appare un vistoso rigonfiamento. In quel punto il tessuto sembra liso, consumato. Mi ricorda le borse sotto gli occhi del manovratore. Chissà perché. I jeans si accartocciano sopra due scarpe da tennis bianche e verdi che ricordano gli stivaletti degli astronauti. Dalla mia posizione al suolo, sotto la portiera aperta, sto fermo a guardarlo, teso come un grissino. Lui, invece, s’è già sviato. Ha ripreso a parlare col manovratore. Gesticola. Sorridono. Mi batte forte il cuore. Vorrei andarmene, ma non posso. Sento che il respiro fatica a proporsi. Vorrei almeno volgere il capo altrove, ma gli occhi non lo mollano finché i battenti sbattono, col tram che riprende il moto.

Adesso devo proprio affrettarmi. Sono in forte ritardo. C’è l’ufficio che aspetta, le chiamate a Londra e Amburgo. Tuttavia non riesco a schiodarmi di lì. Sento le gambe di pietra, un labbro che trema, il furore che si è svegliato e spazza dentro il petto. Chino la testa per smollare la tensione, almeno un poco. Gli occhi cadono sulla pozzanghera. È lucida e nera. Ci sono quasi dentro. Pare uno specchio poggiato al suolo. Se mi chinassi ancora potrei forse vedere la mia faccia riflessa.

Fatti i cazzi tuoi. Avrei dovuto ribattere. Trovare le parole giuste per inchiodarlo alla sua villania. Strapparlo giù dalla vettura. Io? Uno deciso non ci avrebbe pensato due volte. Fare a pugni, magari. Rotolare nell’acqua sporca della pozzanghera come due attori della televisione. Con la gente che si scansa e tira via, magari pensando alla produzione di uno spot pubblicitario. Oppure a una lite tra due balordi da lasciare nel loro brodo. Il marciapiede è lercio. Sarebbe un disastro per i vestiti. Pioviggina da ieri sera, a intermittenza. Per cui non sai mai se portare l’ombrello o meno. Io non l’ho portato. Quella fine acquerugiola che s’infila dappertutto.

A questo punto lui estrae la pistola. O il coltello. Difficile credere che sia sprovvisto di una o dell’altro. E mi apre un buco in fronte. O mi apre un buco in pancia. Un rosso buco sfrangiato come i petali dei miei gerani. No, grazie. Meglio svicolare e augurargli mentalmente tutto il male possibile. Al processo, che si celebrerebbe almeno un paio d’anni dopo la mia invalidità, magari permanente, o la mia morte, nella peggiore delle conseguenze, salterebbero fuori la legittima difesa, l’aggressione e la provocazione di cui l’imputato sarebbe stato vittima. Quale aggressione? Quale provocazione? Omicidio colposo a essere grandi. Preterintenzionale, nella peggiore delle eventualità. L’arma, pistola o coltello, nel corso della colluttazione avrebbe accidentalmente sparato, se trattavasi di arma da fuoco; sarebbe accidentalmente penetrata nello stomaco, se arma da taglio, mossa da un qualche brusco movimento. Del morto, ovviamente. Che poi sarei sempre io.

Sono ancora tutti di loro, giudici e avvocati, figli e nipoti di quelli venuti su in massa dagli stessi paesi meno di un secolo fa. Tutti parenti o amici. Sradicati da una realtà contadina omertosa e primitiva, i cui valori fondamentali si chiamano tuttora silenzio e vendetta. Valori che resistono nel tempo, che hanno saputo radicarsi nelle nostre terre come gramigna. Nel frattempo la mia carcassa stagiona tre spanne sotto la stessa terra. Nutre quei valori e accontenta anche i vermi.

Fatti i cazzi tuoi. Espressione importata dal meridione nei tardi anni Quaranta. Insieme a tante altre del resto. Tutte ampiamente naturalizzate e oggi popolarissime. Salirono con l’ondata migratoria. Venuti su con la piena, si diceva degli immigrati meridionali che, dopo la guerra, sbarcavano in Centrale con le valigie di cartone e gli occhi spiritati. A quel tempo le grandi industrie del Nord calamitavano ingenti masse di popolo. Mano d’opera squalificata di cui si ebbe bisogno per un periodo in cui l’imperativo era quello di produrre a bassi costi, così da spingere lo sviluppo del Paese verso traguardi europei. Individui incapaci di esprimersi in lingua, essi rifiuteranno l’integrazione nella nuova società e continueranno a usare il loro dialetto all’interno di gruppi chiusi e tra le mura domestiche. Saranno le donne, segregate nelle case, a praticarlo regolarmente. Ne faranno una specie di rito consolatorio. Consolatorio nel senso che veniva a compensare la lingua di fuori, nemica e pressoché incomprensibile. Lo trasferiranno ai figli. I quali non lo useranno nei rapporti in giro per la città, ma lo seppelliranno nel profondo dei loro cuori. Dove lo conservano tuttora, inespugnabile come un simbolo, un santino da portare al collo. Una parte di tali dialetti, la più viscerale, viene tuttavia liberata nei momenti di forte emozione, tipo l’insulto gratificatomi dall’omaccio sul tram. E mi chiedo, a questo punto, perché mai sia così facile appropriarsi del peggior lessico altrui. Anzi. Più turpe è il linguaggio, meglio attecchisce negli indigeni, con speciale attenzione nei confronti degli illetterati. Nei giovani soprattutto. Ne esce arricchito dalla mescola con la parlata locale. Acquista nuove sfumature, più mediate e sottili rispetto al rozzo termine di origine. I gruppi sociali se ne impadroniscono, ciascuno aggiustandolo secondo necessità o estro. Fatto sta che metafore e locuzioni d’importazione circolano a migliaia quassù. Avviluppano i nostri motti. Li interiorizzano. Li digeriscono. Li assimilano.

Alle volte mi capita di guardarmi attorno. Di preferenza negli spazi aperti, dove ho agio di osservare senza essere notato. L’oggetto del mio interesse sono gli altri, vale a dire i miei simili. Cerco caratteri come i miei sui volti che incontro. Il tragitto casa-lavoro e lavoro-casa mi trova spesso impegnato nell’attraversamento della piazza del Duomo. La percorro in diagonale, dalla via Mercanti all’ex palazzo reale. Nei due sensi, mattino e sera. È un crogiuolo di disperati che si mischiano ai piccioni. Spelacchiati e pulciosi allo stesso modo.

Suoni i più diversi attraversano l’aria. Pezzi di mondi lontani. Parole incomprensibili. Odori nuovi. Pungenti segnali che non mi includono, estranei, potenzialmente nemici. Allora mi prende un senso di smarrimento, l’angoscioso timore di perdermi in luoghi sconosciuti, dove nessuno mi tende la mano in caso di bisogno perché nessuno mi conosce, nessuno mi capisce. E subito dopo, magari, vivo un sentimento di vergogna se odo un accento di qua. Brandelli del mio bel dialetto che passano sonoramente tra la folla degli alieni. Al semplice sospetto che qualcuno tra i mille disperati in transito irrida quei suoni, una sorda ira comincia a picchiare in testa. La conosco. È la rivolta che vivo al mio interno, selvaggia come un uragano.

Sono una chiara minaccia alla nostra sopravvivenza. Culturale, in prima istanza, ma anche fisica. Ci hanno ristretto entro limiti che si fanno sempre più angusti, estromettendoci da spazi e ambiti che erano soltanto nostri. L’inizio fu subdolo e indolore. Nessuno se ne accorse. Cominciarono col sollevarci da attività ingrate e umilianti. E ti sentivi persino in dovere di essere loro riconoscente. Erano tutti di fuori o quasi: badanti, spazzini, portiere, vigilanti, donne di servizio, facchini, camerieri, manovali. Ma non per molto. Presto passarono ai gradini superiori. Adesso sono in Comune, in Regione. Spacca il cuore l’udire un accento di fuori in municipio. I loro figli frequentano le nostre università. Si fanno classe dirigente. Ora i meridionali sono pressoché spariti dal primo gradino. Le attività più squalificate, infatti, sono state demandate agli extracomunitari, insieme a quelle illegali di carattere più spicciolo. Sono gli africani, oggi, che percorrono le strade a centinaia. La cassetta al collo, il gingillo da pochi soldi fabbricato in uno scantinato della periferia, sono capaci di camminare per ore, da mattina a sera. Ti si bloccano davanti, fermandoti il passo. Spaventano donne e anziani col loro ghigno bruciato. Intimidiscono ragazzi e ragazze che spesso gli smollano qualche soldo per toglierseli dai piedi. Sono gli arabi che esercitano il contrabbando di sigarette e lo spaccio minuto della droga. Gli slavi, invece, prediligono le rapine nei negozi e lo sfruttamento della prostituzione. Campo in cui gli albanesi eccellono. Bravi anche nel violentare le ragazze e rapinare le vecchie signore. Ai sudamericani è affidato il settore del furto con destrezza. Loro operano di preferenza a bordo dei mezzi di trasporto pubblico. I cinesi, che amano le tradizioni, continuano a praticare la tratta degli schiavi. Gli zingari, o nomadi, a piacere, fedelissimi del nostro Paese, hanno saldamente in mano l’intera gamma dei furti nelle automobili e negli appartamenti. Nonché lo sfruttamento dei minori e dei vecchi disabili impiegati nell’accattonaggio, nella questua e in attività consimili.

Figliano gli extracomunitari, più di noi. Come conigli. Hanno capito che il loro riscatto passa anche per questa via. I mocciosi che scaricano qui da noi diventano cittadini italiani a tutti gli effetti. Oggi frequentano la scuola elementare, la scuola media. Domani le superiori, l’università. Dopodomani saranno classe dirigente. Ci schiacceranno come vermi. Questo è il futuro dell’Italia, dell’Europa, della razza bianca.