È un caldo giorno di luglio del 1997. Io e il mio collega nonché amico fraterno Seth Rothstein, project manager della Legacy Recordings (la “costola” della Columbia Records che si sta imponendo sul mercato discografico per le ristampe e le riedizioni di album storici) stiamo raggiungendo Vicenza. Ci attende un incontro con Dave Brubeck, il grandissimo pianista, per la realizzazione della ristampa di Take Five (1959) con accluso un Dvd in cui Dave parlerà della realizzazione dell’album, delle registrazioni, dei suoi ricordi. Siamo entrambi emozionati e felici, ma anche orgogliosi del fatto che ci sia stata affidata la responsabilità di coordinare il progetto per la Legacy. Dave Brubeck (1920-2012) rappresenta per tutti e 2 il nostro approdo al mondo del jazz. Il padre di Seth era un trombettista di discreto valore, amico del sassofonists Paul Desmond, colonna portante del quartetto di Brubeck; da parte mia, Brubeck era uno dei pianisti preferiti da mio padre che ne apprezzava la preparazione accademica.
Dave Brubeck Quartet: Joe Morello (batteria), Dave Brubeck (pianoforte), Eugene Wright (contrabbasso), Paul Desmond (sax alto)
Dave ci attende nella hall dell’albergo accanto al Teatro Palladiano dove si esibirà la serata successiva in solitaria. Ci viene incontro con il suo inimitabile, disarmante sorriso e la sua proverbiale gentilezza. Poche parole e già siamo in grado di pianificare le riprese per il Dvd. Un calice di Prosecco scalda l’incontro e Brubeck inizia a parlare dei suoi figli, Chris e Darius, della sua numerosa famiglia, di baseball, dell’Italia che adora e che vorrebbe visitare con più frequenza. È un fiume di parole, aneddoti, ricordi. L’atmosfera si fa subito cordiale e rilassata: come la sua musica, ma orecchio a non trattarla come banale. Take Five, infatti, è un album che ha segnato la storia del jazz, che ne ha rivoluzionato il linguaggio, ridefinito le gerarchie in seno a un organico, aperto nuove vie alla sperimentazione, allo sviluppo di temi e ritmi finora mai proposti nell’ambito della musica popolare.
Dave Brubeck aveva studiato col sommo compositore classico Darius Milhaud, approfondendo lo studio della dodecafonìa e delle ultime istituzioni in materia di musica contemporanea; e le aveva fuse con il suo personalissimo stile, frutto di un jazz più intellettuale che viscerale, più incline alla riflessione e allo sviluppo di melodie mediate sia dall’ambito accademico, sia dal blues. La sua mano sinistra, quella che detta le basi dello sviluppo musicale, è più simile a quella di un pianista classico – molto dotato, peraltro – che a quella di un jazzista tout court. Sa determinare cambi di ritmo e atmosfere, che se da un lato rimandano al cool jazz californiano del decennio precedente, dall’altro aprono alla corrente dello Third Stream, quell’affascinante mistura di musica jazz e musica classica che ha – guarda caso – in Teo Macero, storico produttore di Miles Davis e dell’album in oggetto, ma soprattutto sassofonista appassionato, uno dei suoi massimi sostenitori e mecenati.
Dave Brubeck
Prima dell’incisione di Take Five, Brubeck era sì un pianista di successo che guidava un quartetto destinato a fare cose straordinarie, ma ancora non aveva individuato quelle caratteristiche che lo avrebbero portato nell’Olimpo dei Grandi. Da qualche anno il suo quartetto era perfettamente coeso, risultato dell’incontro di 4 grandi personalità protese alla riuscita di una musica del tutto originale, che non ha eguali nel panorama jazzistico dell’epoca. Caratteristica fondamentale è l’eleganza. Eleganza che il gruppo rivela sin dalla sua immagine pubblica fatta di abiti sartoriali, adesione alla moda di quei tempi, di outfit che sottolinenano come anche una singola camicia indossata, una t-shirt, un paio di scarpe sportive, la montatura degli occhiali, l’orologio al polso, l’autovettura guidata, si fondano con la proposta estetica della band che si basa, oltre che sulla carismatica personalità del leader, sugli altri 3 grandissimi musicisti.
Paul Desmond è il sassofonista. Schivo, timido, riservato, riversa nel sound del sax alto la sua personalità malinconica, riflessiva, amante della letteratura romantica ottocentesca. Ha saputo creare uno stile tutto suo, derivato in parte da Warne Marsh ma trasposto al sax alto. Uno stile cadenzato, una pennellata impressionista delicata ma densa d’emotività e capace di esplosioni geniali. Paul è il perfetto compagno d’avventure per Brubeck, che cuce per il suo sassofono musiche adatte al solismo intellettuale e delicato del compagno. Desmond fu aspramente criticato dai critici per il sound ovattato. Erano anni in cui stavano emergendo sassofonisti “aspri“, crudi, dal suono a volte sporco e graffiante, tipico di quel free jazz che si stava affacciando con prepotenza sulla scena. Paul non ci fece mai caso, non si curò delle critiche, forte dell’apprezzamento di quegli stessi sassofonisti free che lo lodavano e lo stimavano come uno dei più originali strumentisti di allora. Non a caso Anthony Braxton, alfiere del free e della cosiddetta scena creativa di Chicago, annovera Desmond fra le sue più importanti fonti ispirative. Fu anche un ottimo compositore che ebbe una discreta carriera solista; e alla sua penna si deve proprio Take Five, che proietterà la band sulle scene con la forza di un cazzotto ben assestato.
Paul Desmond
Al contrabbasso troviamo Eugene Wright, afroamericano con una preparazione jazzistica di tutto rispetto. Gran portatore di tempo, alfiere del “walking bass” che ha in Ray Brown il suo massimo esponente, Gene (come lo chiamano gli amici) è un tassello fondamentale nell’economia musicale del gruppo. A lui è affidata la funzione di dettare la direzione musicale, sostenere il discorso, essere il collante fra i membri del quartetto. Se non hai un contrabbassista che sa reggere da solo l’impalcatura della costruzione declinando i cambi, gli ingressi del solista di turno, gli assieme, l’esposizione del tema, l’improvvisazione, i dialoghi, non puoi raggiungere simili livelli. Wright non beneficerà mai di lodi apertamente espresse, non diventerà mai oggetto di studio, ma senza il suo apporto sarebbe stato impossibile cogliere quell’eccellenza che il Dave Brubeck Quartet ha saputo mostrare.
La batteria è appannaggio di Joe Morello, paffuto italoamericano, strumentista di una modestia senza pari, ma anche assoluto fuoriclasse dello strumento. Un autentico virtuoso, capace di assoli mozzafiato e interazioni con il solista di turno sul suo stesso piano espressivo. Ma Joe è soprattutto un musicista, non un semplice drummer che vuole mostrare i suoi muscoli e il suo valore. Take Five, non a caso, non è che un assolo di batteria in 5/4, misura quanto mai inusuale poiché tempo dispari, quindi di difficile esecuzione, su cui si innesta un valzer di sax sostenuto da un pedale di pianoforte magico e inimitabile.
Ognuno di voi avrà fischiettato, almeno una volta nella vita, il tema di questo meraviglioso brano. Ogni volta che lo si ascolta la reazione è un sorriso, un’espressione di piacere sul volto. Questa è la musica di Brubeck: un sorriso, un piacere profondo, uno stato di benessere e di nirvana. Tutto l’album si basa su musiche che ti entrano sottopelle, ti affascinano, ti obbligano all’ascolto attento: come Blue Rondo à la Turk, un 9/8 esasperato, velocissimo, che parte con un temino che rimanda alla marcia turca di Wolfgang Amadeus Mozart per poi svilupparsi in un’esplosione di vitalità e gioia fatta di 7 note. Gli unisono sax – pianoforte sono entusiasmanti: momenti di luce incastonati in un dipinto che sa valorizzare ogni singolo elemento dell’opera, persino la cornice. Altri brani come Kathy’s Waltz o Three To Get Ready, altro non sono che testimonianze di genio; dimostrazioni espressive di una fra le band che hanno scritto il jazz del dopoguerra. Ideale colonna sonora per una serata fra amici, Take Five non è che un’umile testimonianza di come la musica jazz sia tutt’altro che cervellotica ma gioiosa e giocosa. Enjoy… non vi deluderà.