Vengono definiti supergruppi o all stars bands quelle formazioni spesso nate in occasione di festival jazz o di eventi speciali, che vedono riuniti fuoriclasse alle prese con repertori non all’altezza del loro valore, o schiacciati dai loro ego. Raramente ne escono momenti musicali d’altissimo livello, ma quando ciò accade la magia è il comun denominatore di questi incontri, creati il più delle volte per fare incassi o per progetti discografici ad hoc.

Prendete 5 straordinari musicisti (ognuno dei quali maestro del proprio strumento) uniti da una lunghissima consuetudine umana e lavorativa. 5 amici che hanno sempre lavorato insieme in svariati contesti. 5 sessionmen che trovate in almeno 9 dischi pop, soul, rock o jazz su 10, di quelli che abitualmente ascoltate. 5 musicisti che hanno lavorato, per fare qualche nome fra i tanti, con Paul Simon, James Taylor, Michael Franks, Frank Sinatra, Quincy Jones, Dave Grusin, Bruce Springsteen, Ben Sidran, Rickie Lee Jones. 5 musicisti che oggi suonano dal vivo con Joni Mitchell, mentre domani saranno in studio a registrare lo spot della Coca-Cola o della Nissan per il mercato giapponese.

Ed è proprio dal Giappone che nasce la storia di Mike Mainieri, vibrafonista eccelso che viene chiamato a esibirsi al Pit Inn, il noto locale jazz di Tokyo. Ha carta bianca, può chiamare chi vuole sul palco. Mesi prima a New York, al Seventh Avenue South di proprietà dei fratelli Brecker, aveva messo su una band da sogno con Michael Brecker al sax tenore, Eddie Gomez al contrabbasso, Steve Gadd alla batteria e Don Grolnick al pianoforte.

Il vibrafonista Mike Mainieri

Un supergruppo in tutto e per tutto, ma non una band “raccogliticcia” messa insieme per un evento, bensì un gruppo di veri amici che si conoscono da 30 anni almeno, che hanno suonato insieme nei contesti più disparati, che si stimano e sanno perfettamente fin dove si possono spingere. A New York sono il gruppo di cui tutti parlano: Michael Brecker è il più grande sassofonista apparso sulle scene dai tempi di John Coltrane; Steve Gadd è “il batterista“: dopo Buddy Rich nessuno ha innovato il linguaggio percussionistico quanto lui; Eddie Gomez ha suonato in gioventù con Bill Evans, è fra i maestri del contrabbasso moderno e ha pochi rivali quando si lancia in assolo; Don Grolnick è uno degli arrangiatori più geniali che ci siano in circolazione e in più è un pianista dotato di una personalità carismatica.

Gli Steps sono rodati, il repertorio è consolidato. Al Pitt Inn è sold out ogni sera, in Giappone li venerano come dei, sono perfino protagonisti di un fumetto e testimonial di vari spot pubblicitari (non a caso la Casio ingaggia Steve Gadd per lanciare il nuovo orologio digitale con lo sloganIl tempo lo decido io!“. Le serate vengono registrate dalla Nippon Columbia e diventano il doppio Lp Smokin’ In The Pit (1980) che cattura alla perfezione la magia che il gruppo riesce a creare live.

Ognuno appare in stato di grazia, ma è Brecker a meritarsi una menzione speciale con il suo torrenziale assolo in Not Ethiopia, autentico tour de force in cui dimostra di essere il perfetto seguace di Coltrane, senza però dimenticare la lezione di Sonny Rollins o di Joe Henderson. Non ha bisogno di lodi Gomez, che ci delizia di assoli giocati sul registro alto del contrabbasso. E Gadd che con 3 piatti, 1 grancassa, 1 rullante, 2 tom e 2 timpani fa quello che vuole. E tantomeno Mainieri, che ci regala momenti di pura poesia in Sara’s Touch e in Lover Man, dove fa a gara con Grolnick su chi sia l’autore dell’assolo più emozionante e vibrante.

Il sassofonista Michael Brecker

Smokin’ In The Pit scorre come un fiume in piena, travolgendo le assurde convinzioni che vogliono un gruppo di sessionmen incapace di suonare grande jazz, di swingare, di convincere. Gli Steps non solo convincono, ma si pongono come la formazione da seguire per capacità interpretative, invenzioni, fraseggio, arrangiamento e originalità. Chi storce il naso accusandoli di essere dei mestieranti, ascolti con attenzione Lover Man o Soul Eyes e si ricrederà immediatamente. Non esiste alcun pedigree per essere un jazzista tout court, basta avere cuore e passione… e qui ce n’è a profusione.

La Nippon Columbia li vuole in studio a incidere l’album Step By Step (1980) che ci offre in Belle l’opportunità di assistere a momenti indimenticabili con l’archetto di Gomez e il vibrafono di Mainieri, mentre Uncle Bob e Six Persimmons esaltano le doti compositive di Grolnick, pianista con uno spiccato senso del blues. Poi c’è il lavoro di Gadd con le spazzole, specie in Bullet Train dove impreziosisce di finezze dal sapore sudamericano un ritmo di samba apparentemente banale che nelle sue mani diventa epico.

Tornati a NYC e pronti per il 3° album in studio, devono affrontare la prima defezione: Steve Gadd lascia e viene sostituito al meglio per personalità, tocco, fraseggio e affinità stilistiche da Peter Erskine che ha da poco lasciato i Weather Report. Con il nuovo batterista, ma senza particolari stravolgimenti di mood e di poetica, gli Steps Ahead registrano Paradox – Live At Seventh Avenue South (1982) che lancia un ponte verso la futura produzione targata Elektra ponendo in evidenza lo stato di grazia di una formazione ormai ampiamente rodata, grazie a solisti di valore assoluto e composizioni semplicemente esemplari.

Se nei primi 2 dischi con Gadd emergeva la spontaneità e la carica iconoclasta, qui con Erskine c’è maggior attenzione alla struttura dei brani, all’interpretazione, all’adesione a un’estetica che vuole rinnovare il jazz acustico aumentandolo di stilemi rock, ma senza stravolgerne l’essenza. Semmai abbellendo, rinnovando, attualizzando un format che aveva perduto appeal nei confronti del pubblico più giovane. Proprio il fatto di essere formata da musicisti che oggi suonano con Eric Clapton, con James Taylor, con Bruce Springsteen e domani si chiudono in studio per proporre la “loro” musica , ha portato la band a poter contare su uno stuolo di fans appassionati. Four Chords e NL 4 a firma Grolnick, Patch Of Blue e The Aleph di Mainieri e Take A Walk di Brecker, sono i momenti più alti di un album suonato e interpretato con grande passione e umiltà.

Il contrabbassista Eddie Gomez

In disaccordo con le scelte estetiche di Mainieri, Grolnick lascia all’improvviso il gruppo e viene rimpiazzato dalla giovane Eliane Elias, all’epoca cognata di Brecker in quanto moglie del fratello Randy. Brasiliana di nascita, porterà una ventata di freschezza nella band. Mainieri firma un contratto con la Elektra e il nuovo album è Steps Ahead (1983): passi avanti, in quanto si è scoperto che un gruppo australiano vanta i diritti sull’utilizzo del nome Steps. Grolnick, dal canto suo, regalerà al gruppo 1 dei brani storici in repertorio, ovvero quel Pools che esalta le doti di batterista virtuoso di Erskine, denso com’è di cambi di ritmo e patterns intricati. La Elias si rivela pianista diligente, seppure a volte un po’ acerba e timida. Mainieri regala in Skyward Bound 1 dei più begli assoli di tutti i tempi al vibrafono, mentre per i jazzofili in odor di scetticismo c’è Trio: An Improvisation dove Mainieri, Gomez e Brecker zittiscono chi ancora osa discuterne il valore per colpa del loro passato di sessionmen.

L’album successivo, Modern Times (1984), vede andarsene la Elias che lascia il posto a Warren Bernhardt, collaboratore di Mainieri ai tempi di Jeremy And The Satyrs sul finire degli anni 60 e poi nella White Elephant Big Band, orchestra che rivaleggia con Frank Zappa e le sue Mothers of Invention al Garrick Theatre di Londra. Bernhardt è un pianista jazz a tutti gli effetti, amico fra i più intimi di Bill Evans nonché fine tessitore melodico. Modern Times, che porta la strumentazione ad avvalersi di sintetizzatori e diavolerie elettroniche, si aggiudica il titolo di miglior album di jazz elettrico dell’anno.

Siamo nel 1984 e detronizzare i Weather Report non è certo impresa da poco. Gli Steps Ahead ci riescono grazie a una sapiente miscela di acustico e di elettrico, grazie a una sensibilità jazzistica maggiore rispetto ai Weather e grazie a composizioni di largo respiro come Self Portrait, Modern Times, Oops, Safari e Now You Know. Con una manciata di album perfetti, la band cattura l’attenzione di quel pubblico jazz che non concede il plauso tanto facilmente. Ciò che manca è catturare il pubblico nero più giovane: quello dei ghetto blasters, dell’hip hop, dei ritmi binari e della fusion, termine quanto mai negativo per una musica che affonda le proprie radici nella grande tradizione jazzistica.

Il batterista Steve Gadd

È la volta di Magnetic (1986): capolavoro sintetico, opera magna del sincretismo musicale di fine anni 80. C’erano una volta i Weather Report? Oggi ci sono gli Steps Ahead, che guarda caso annoverano tra le loro fila due ex di Joe Zawinul e Wayne Shorter: Peter Erskine alla batteria e Victor Bailey, giovane talento del basso elettrico. Fin dalle prime note di Trains veniamo trasportati in un incandescente calderone elettrico ed elettronico. I ritmi sono squadrati, ma Erskine ci gioca abbellendo la sua batteria acustica di suoni sintetici, che sorretti dall’incalzante basso di Bailey conferiscono al brano un incedere epico sul quale il vibrafono e soprattutto il sax tenore di Brecker si stagliano maestosi. Volevate una dichiarazione d’intenti? Eccola, in tutta la sua forza espressiva. Oggi il jazz si può e si deve suonare anche avvalendosi dell’elettronica: basta piegarla ai propri voleri estetici, non farsi sopraffare da essa, utilizzarla con gusto… ed ecco il Jazz del XXI Secolo servito su un piatto d’argento.

Beirut, invece, è di una modernità senza eguali. Joe Zawinul confidò che avrebbe voluto scrivere un brano potente ed espressivo. Il risultato è questo gioiello che ricorda con il suo incedere incalzante, ipnotico e immaginifico il martirio della città del Libano ai tempi della guerra civile. Il vibrafono MIDI di Mainieri e il sax EWI di Brecker si inseguono e si rincorrono come i cristiano maroniti e i drusi per le strade cittadine. Si sparano, si sfidano, si feriscono per poi lanciarsi in assoli mozzafiato. Chi pensa che le sonorità elettroniche non possano trasmettere emozioni forti, si ricreda: a oggi non esiste pezzo “sintetico” più emozionante e coinvolgente di questo. Nei solchi di Magnetic, infine, trova spazio una delle più belle versioni di In A Silent Mood suonata all’EWI da un ispiratissimo Brecker in versione replicante alla Blade Runner, con le lacrime a confondersi con la pioggia mentre rende omaggio al genio di Duke Ellington.

Il pianista Don Grolnick

Dopo Magnetic gli Steps Ahead si sciolgono per un certo periodo. Erskine e Bailey tornano alla corte di Re Zawinul e un nuovo tour in Giappone, come sempre pronto ad accogliere Mainieri e Brecker a braccia aperte, riporta in vita la band con nuovi elementi: alla batteria Steve Smith (ahimè un passato nei Journey), solidissima preparazione jazzistica e leader dei Vital Information; al basso Darryl Jones, già enfant prodige con Miles Davis, alla corte di Sting e con i Rolling Stones; alla chitarra Mike Stern, eroe delle 6 corde, anch’egli con un passato davisiano: fu lui il prescelto per il ritorno di Miles sulle scene dopo il lungo ritiro forzato. Una band muscolare, ben coesa, per 1 live che mette in risalto Mainieri, Brecker e Stern.

Per il successivo N.Y.C., dobbiamo attendere il 1989. Brecker si è dedicato alla carriera solista che gli sta dando quei giusti riconoscimenti che merita da decenni e Mainieri non ha alcuna intenzione di sostituirlo con uno dei tanti cloni in circolazione. Vara una formazione totalmente rinnovata e al sax chiama un giovane norvegese di talento, Bendik Hofseth. Alla batteria ritroviamo Steve Smith, al basso il talento sempreverde di Tony Levin, alla chitarra Steve Khan. Dopo anni breckeriani non è semplice rinvedire certi fasti, ma Mainieri non vuole risuonare vecchi stilemi. Al contrario, rinnova la tavolozza espressiva del gruppo: ampio spazio a Bendik e alle atmosfere nordiche; ritmi nevrotici che possano esaltare 2 fuoriclasse come Smith e Levin (ascoltate Stick Jam, dove si esaltano l’un l’altro dando una lezione di come debba suonare una base ritmica degna di tal nome); melodie sì accattivanti ma mai banali; il piacere rinnovato di fare musica insieme.

Se Well, In That Case, è un brano che ci riconsegna un Mainieri abile compositore e finissimo solista, Lust For Life (con lo splendido basso di Levin) ci conduce ad atmosfere sognanti sulle quali il sax di Bendik si esprime con grande personalità e quel gusto per le aperture sonore figlie dei grandi spazi norvegesi. Trova inoltre spazio un episodio vagamente “etnico“, Senegal Calling, che fa dei poliritmi africani un terreno per scorribande armoniche di un certo azzardo, ma dal fascino strabiliante. N.Y.C. getta le basi per un’ulteriore evoluzione del suono Steps Ahead che riaffiora nella triste, intensa Red Neon, Go Or Give che da sola vale il prezzo dell’album. Evoluzione che avviene  in Yin-Yang con un meraviglioso Jeff Andrews al basso e Rachel Z alle tastiere, autentiche rivelazioni di un disco intriso di sonorità nuove, echi world e una rinnovata coscienza di gruppo.

C’è poi il disco con Donny Mc Caslin al sax, Michael Cain alle tastiere e Clarence Penn alla batteria che nulla aggiungerà ai fasti dei bei tempi andati. Brecker non c’è più, sostituirlo è impossibile, sicché la storia degli Steps Ahead si ferma qui. Negli anni seguenti ci saranno riedizioni e riproposizioni: una in particolare con Bob Berg al sax, Peter Erskine alla batteria, Eliane Elias al pianoforte e Marc Johnson al contrabbasso, merita di essere citata per la bellezza della musica. Ma è solo un momento, la magia è svanita e di quella gloriosa stagione ci restano i Cd, i concerti, i Dvd.

In fondo è giusto cosi: non avrebbe senso riproporre musiche che all’epoca avevano un’importanza e una loro precisa valenza. Oggi il jazz è radicalmente mutato e non c’è spazio per la nostalgia. Comunque, di “passi avanti” gli Steps Ahead ne hanno fatti un’infinità. Ma forse si sono solo fermati a rifiatare, nell’attesa di correre ancora più veloci.