Sassofonista norvegese capace d’inventarsi una voce assolutamente personale sia al sax tenore, sia al sax soprano che utilizza nella versione ricurva e non in quella “straight” come avviene nel post Coltrane, fin dal suo debutto Jan Garbarek divide la critica. Da una parte c’è chi lo identifica in creatore e star di una musica ambient dal facile ascolto; l’autore di musiche da sottofondo (ditemi voi il supermercato dove si ascolta Garbarek in sottofondo e io ne diventerò un affezionatissimo cliente!) adatte a documentari naturalistici o a tecniche di meditazione (niente di più sbagliato). Dall’altra chi ne ammira la spiritualità, la capacità immaginifica e il talento nell’aver saputo creare una musica che fonde, oltre alla tradizione jazzistica, le origini e le suggestioni nordiche (vedi il recupero della tradizione sami) dando così vita a un universo musicale sfaccettato ma compatto, riconoscibile, denso di affascinanti sfumature.
Da sempre Jan paga questo conflitto di opinioni sul suo operato, la sua musica, la sua arte. Vero è che la vocazione melodica e il suo suono scultoreo possono raggiungere anche chi ignora il jazz, ma il suo repertorio ha radici che andare a scoprire sono di una complessità quasi scoraggiante.
Jan Garbarek
Michael Tucker, autore di un saggio sul sassofonista (Jan Garbarek – Il canto profondo del Nord, Stampa Alternativa) propone, per dirimere la diatriba, un paragone quanto mai efficace ed esplicativo della sua personalità: “Come un naturalista che gira attorno all’albero, Jan Garbarek ne osserva i particolari, i nessi con l’ambiente esterno, lo circonda, li confronta con le conoscenze proprie e di altri studiosi e alla fine stende la sua relazione nella quale di quell’albero ci racconta tutto quello che c’è da sapere: che storia ha, come è fatto all’esterno così come anche all’interno, se vi sono animali che lo abitano, e così via“.
Nel suo caso ci troviamo di fronte a un musicista del mondo, a un apolide che affonda le proprie radici nelle musiche di tutto il pianeta muovendosi in qualsiasi contesto egli venga chiamato a offrire il suo contributo. Non è un caso che la compositrice greca Eleni Karaindrou, con cui ha spesso collaborato, abbia affermato di ritrovare tracce familiari nelle sue musiche: «Ho sentito qualcosa di molto vicino al mio cuore, dal sapore balcanico».
Se esaminiamo dischi a nome di un solo titolare ma dallo spirito collettivo come Madar, in cui Garbarek si affianca ad Anouar Brahem e a Ustad Shautak Hussain; oppure Song For Everyone, a firma L. Shankar, è lecito domandarsi: cosa stiamo ascoltando? Dove siamo? Dove ci conduce la loro musica? Ovunque, poiché siamo al cospetto di musicisti che hanno oltrepassato i confini e stravolto la geografia, buttando all’aria atlanti e mappamondi. E proprio da Song For Everyone inizia il concerto di Dresda del 20 ottobre 2007. L’ultima fatica discografica, Dresden – In Concert (su etichetta ECM) dello Jan Garbarek Group.
Il brano Paper Nut è tratto da quella collaborazione, ma Garbarek e i suoi musicisti ne danno una versione più nevrotica, più coinvolgente, più ipnotica. Alla batteria c’è quel fantastico mago delle bacchette che è Manu Katché: e da subito, dalle prime battute, il clima si fa incandescente. Un magma sonoro su cui si staglia il sax splendido, come sempre, del leader. Manu tesse su pelli e piatti una trama ritmica fittissima. Nessuno al mondo può vantare la sua fantasia percussiva e non è un caso che Garbarek si sia sempre circondato di batteristi (vedi Jon Christensen agli inizi, nonché percussionisti quali Marilyn Mazur o Trilok Gurtu) dalla spiccata personalità e dal valore assoluto.
Manu Katché
Il dialogo serrato fra batteria e sax si fa sempre più torrido fino all’ingresso delle tastiere orchestrate da Rainer Bruninghaus, vecchio sodale del norvegese; e del basso, nelle mani di Yuri Daniel, che ha l’arduo compito di sostituire quel sommo contrabbassista che fu Eberhard Weber, ritiratosi dalle scene per gravi motivi di salute e compagno d’avventure di Garbarek per più di 30 anni. Yuri non lo fa rimpiangere, anzi: arricchisce la tavolozza dei colori a disposizione di Jan, che sa valorizzarne l’aspetto melodico e il solismo ispirato. Nella musica del quartetto non vi è un solo punto di riferimento. Per scovarli dovremmo isolare ogni singolo elemento, ma perderemmo di vista il discorso collettivo, il disegno generale che ognuno di loro contribuisce a creare.
Figlio di un rifugiato polacco sfuggito al nazismo, Garbarek si impadronisce di una musica originariamente nata in India per porgerla senza confini e senza tratti distintivi all’ascoltatore. È la natura globalista a portarlo ad avere nel suo organico un tastierista tedesco, un bassista brasiliano e un batterista franco-ivoriano. L’aver subìto l’influenza di musicisti quali Don Cherry e John Coltrane (per i quali l’interesse nei confronti delle molteplici culture del mondo fu un fondamento della loro proposta musicale) ha tracciato una via che ancora percorre.
E a tenere unite le varie influenze, i vari interessi, le reminiscenze, i rimandi, altro non è che la voce meravigliosa del suo sassofono. Sia al soprano, sia al tenore, egli rimane sempre se stesso, come se uno strumento fosse il prolungamento dell’altro. Dal sussurro, al soffiato, al grido, il suono rimane comunque pieno, limpido, ineffabile, tondo. La sua musica è pura poesia sonora, intesa come elevata tensione spirituale. Una musica spesso fatta di silenzi, di pause di riflessione e di aperture alla melodia più semplice. Fatta di luce, che vuol dire anche ombra e buio.
In questo, forse, l’essere nato in un paese che conosce l’aurora boreale fa sì che le esplosioni sonore abbiano le infinite sfaccettature che sono proprie di quell’evento atmosferico. Tutti i suoi musicisti contribuiscono in modo esemplare alla riuscita del concerto che si dipana attraverso la riproposizione di alcune delle pagine più intense del suo repertorio: Twelve Moons, dove echi popolari norvegesi s’intrecciano con le fitte trame percussive di un Katché in particolare stato di grazia; Groovin’ Out e Voy Cantando, che meritano un ascolto più attento.
Ma il tutto non ha un solo attimo di cedimento. Manifesto del concerto perfetto, Dresden ci restituisce un autore, un solista, un gruppo che troppo spesso non valutiamo in tutta la loro grandezza ma frettolosamente archiviamo come normale routine. Al contrario, questa è una band che ha ancora (e più di prima) voglia di sperimentare e di esplorare territori sconosciuti, forte della coesione e del valore dei singoli.
Dal 2009 attendiamo una nuova prova discografica di Jan Garbarek e del suo nuovo quartetto che annovera Trilok Gurtu alla batteria e alle percussioni. L’alchimìa fra i 2 promette scintille e siamo impazienti di riascoltare questo autentico maestro e il suo sax, indiscussi protagonisti (piaccia o meno) del jazz degli ultimi 50 anni.