Il genio di Miles Davis ha per così dire fatto da “levatrice ” a una generazione di fenomeni che erano nati, comunque, jazzisti puri. Iniziamo evidenziando 2 casi emblematici: Herbie Hancock e Chick Corea, entrambi spettacolari pianisti ed entrambi titolari, negli anni 60, di incisioni jazz. Nel caso specifico di Hancock, parte integrante del gruppo di Miles Davis: quando il trombettista è ben lungi dalla svolta “elettrica ”, ma al quale il giovanissimo musicista (a 7 anni aveva cominciato col pianoforte e a 11 era già nella Special Orchestra di Chicago) dà in prestito 2 successi assoluti, Watermelon Man e Cantaloupe Island.

In effetti, l’iniziale progetto di Herbie Hancock è quello di fare il concertista classico più che il jazzista, ma la notorietà di Watermelon Man e la sua “firma ” nella colonna sonora di Blow-Up, il film diretto nel 1967 da Michelangelo Antonioni, lo rende in tutta evidenza ricettivo nei confronti della svolta elettrica davisiana suonando ora l’organo, ora il piano elettrico. La sua, fin dal 1971, è più una collaborazione alla pari (o quasi) che dipendenza da un leader : quell’anno infatti, pur rimanendo a stretto contatto con Miles, in omaggio al trend di un “ritorno all’Africa ” piuttosto frequente fra i jazzisti afroamericani Hancock adotta il nome Mwandishi registrando con una sua formazione l’album omonimo.

A scintillare, in questi solchi, è il suo virtuosismo pianistico e l’utilizzo di strumenti elettrici; ma penso che qualunque purista di jazz vi si possa ritrovare, poiché nei vari brani viene rispettata la regola non scritta della composizione jazz, ovvero tema-improvvisazione-tema, mentre nei 2 album successivi, Crossings e Sextant, Hancock pare avvicinarsi di più allo sperimentalismo elettronico di Davis, anche dal punto di vista grafico dei dischi: basti confrontare, ad esempio, la copertina di Sextant con quella di Bitches Brew o di Live Evil.

Ma il vero e proprio boom discografico lo realizza con Head Hunters (1973) a capo di una formazione ristrettissima: basso, sax, batteria, percussioni. L’Lp si articola in 4 brani che possono ricordare il contemporaneo Miles “funky ”, ma al contempo ne prendono le distanze per 2 motivi: la pulizia del suono e la capacità di articolare i ritmi, rendendo questo lavoro discografico più vicino a Sly and the Family Stone di quanto non avesse sognato lo stesso Davis; senza contare l’abilità tecnica nel muoversi fra le tastiere, in particolare il sintetizzatore e il clavinet.

Head Hunters si rivela un notevole successo, trainato da quello che è, tutt’oggi, 1 dei pezzi più famosi di Hancock: Chameleon, un funky dal ritmo travolgente a partire dal quale si può scorgere una sorta di dicotomìa nella produzione del pianista che probabilmente è da mettere in relazione col fatto di contare sulle dita di una mano chi suonando jazz puro è diventato non dico ricco ma almeno agiato, dal momento che Hancock negli anni successivi si dedica a progetti di electro funk piuttosto remunerativi nei quali sfrutta la propria competenza riguardo alle novità proposte dalla strumentistica elettronica, nonché un formidabile senso del ritmo esemplificato da un brano come Rockit (1983) che scandisce la geniale fusione di strumenti elettronici, scratching e campionamenti vari. Il senso del ritmo, inoltre, gli consente di confermarsi, dopo l’esordio con Blow-Up, un ottimo autore di soundtrack : in particolare Round Midnight (1986) dell’omonimo film di Bertrand Tavernier, che l’anno successivo si è aggiudica l’Oscar. Oggi, da arzillo 83enne, Herbie Hancock rimane forse il maggior esponente della musica fusion.