Doverosa premessa. Abbiamo letto Testimony (2016) di Robbie Robertson in lingua originale, all’uscita poco più di 3 anni fa. Quindi, a proposito di questa prima edizione italiana non possiamo dare valutazioni sulla traduzione (opera di Gianluca Testani, che i più attenti lettori ricorderanno come ottima penna del defunto mensile/settimanale Il Mucchio Selvaggio); né se vi siano errori di qualunque sorta, o vi siano stati dei tagli significativi come, per esempio, accadde nell’edizione italiana di No Direction Home (1987), la biografia di Robert Shelton dedicata a Bob Dylan che fu letteralmente falcidiata di oltre 100 pagine nell’edizione edita da Feltrinelli (con l’asettico titolo Vita e musica di Bob Dylan) e curata da Riccardo Bertoncelli – le 590 pagine che formano questa traduzione di Testimony, più o meno quelle dell’edizione inglese, fanno comunque ben sperare.

Ma andiamo al sodo. Sono decenni che il mondo della Band si divide sulla figura di Robbie Robertson: accusato da moltitudini di fan di essere il carnefice di quel gruppo che è decisamente fra gli organi vitali della musica nord-americana dei 60s, in un ideale esagono con Beach Boys, Byrds, Velvet Underground, Grateful Dead e Doors (va bene, va bene: aggiungere pure Creedence Clearwater Revival, Love, Jefferson Airplane, Sly & The Family Stone, Rascals, Stooges…); di aver lasciato le briciole ai suoi 4 compagni di avventura; addirittura di essersi arrogato i crediti di canzoni divenute leggendarie (su tutte, The Night They Drove Old Dixie Down). A buttare (molta) benzina sul fuoco vi pensò l’antico compagno Levon Helm, che nella sua autobiografia This Wheel’s On Fire: Levon Helm And The Story Of The Band (1993) dipingeva la figura di Robertson alla stregua di Belzebù, scaraventandogli addosso tutte le accuse elencate poc’anzi. Ora, da queste parti siamo dei tifosi Band-iani, tendenza Levon e Richard Manuel – dobbiamo giocare a carte scoperte. Ma non barare. Levon qualche buona ragione, specie per come sono stati condotti gli affari in seno alla formazione, poteva anche averla (certo che i problemi personali di quasi tutti loro, fra alcol e droga di quella heavy, non rendevano facile la vita…). D’altra parte, finché in vita, al batterista/mandolinista/cantante si poteva tranquillamente controbattere: dove sono le canzoni, Mister Helm?

Già, perché Levon dallo scioglimento della Band in poi pubblicò ben 6 album, sovente molto belli ma tutti di cover; mentre Robbie ne ha pubblicati 7 ma tutti di brani originali (colonna sonora di The Carny inclusa) – e che brani, spesso capolavori che non sfigurano se messi accanto a quelli vergati dalla Band: Soapbox Preacher, Fallen Angel, What About Now, Skinwalker, Broken Arrow, Take Your Partner By The Hand, Somewhere Down The Crazy River, I Hear You Paint Houses, Night Parade, Hold Back The Dawn, Beautiful Madness. La bilancia, come si vede, pende molto per Robbie. Le ultime notizie, tuttavia, fanno perdere qualche punto a Robertson: come molti avranno letto, è di questi giorni il lancio in pompa magna del film Once We Were Brothers, documentario che copre l’epopea della formazione fino al concerto del Giorno del Ringraziamento anno 1976, passato alla storia come The Last Waltz – peccato che la pellicola, un po’ in ego trip stile Paul McCartney che qualche lustro fa impose in un suo album live i crediti McCartney-Lennon (anziché il classico e in ordine alfabetico Lennon-McCartney) dei brani epoca Beatles presenti in scaletta, sia a nome Robbie Robertson & The Band. Il girone si chiama “manipolazione della realtà”.

Spine nel fianco e macigni nelle scarpe a parte, Testimony è una grande, immancabile lettura per chiunque appassionato del genere (auto) biography. Robertson scrive benissimo, sa essere contemporaneamente rocker ed erudito, regala particolari e aneddoti preziosi quanto di prima mano, in molti casi rivelatori per noi adoratori della Band. La lettura si apre con il giovane Robbie preso fra la Indian Nation dov’era nata la madre Cayuga/Mohawk e la Toronto dove a gestire le strade era la criminalità organizzata, fra ebrei e italiani che comandavano; e si chiude con la puntigliosa narrazione del già citato Ultimo Valzer, consegnato all’eternità dal classico doppio album e dal film capolavoro firmato da Martin Scorsese. In mezzo vi è di tutto: la genesi del gruppo, che in principio si chiamava Hawks e che appunto accompagnava il grande Ronnie Hawkins; i tanti anni in giro per il Nord America a farsi le ossa come bar band, nel nome dei più taglienti rock’n’roll e blues; la fratellanza con Helm, Manuel, Rick Danko e Garth Hudson – ricordati tutti con nostalgia ma senza seppellire i problemi che vi furono fra loro: semplicemente, Robbie li racconta senza acredine e con il giusto distacco. Fino all’incontro con Bob Dylan, che sarà definitiva catapulta verso perpetua gloria.

Con Dylan, Robertson ha vissuto momenti a dir poco epici: dall’incisione di Blonde On Blonde (1966) ai famosi Nastri di Cantina aka The Basement Tapes; dal tour mondiale 1965-66 dove ogni sera si assisteva a un estenuante Bob vs Pubblico (“Alla fine Bob sembrava Jake LaMotta: quindici round durissimi ma mai andato al tappeto“), fino a quello trionfale Nord Americano del 1974, dove con dovizia di particolari viene anche raccontato il rapporto cane & gatto al limite dell’esilarante fra Dylan e l’impresario David Geffen. E sempre in tema Dylan, Robertson svela di essere stato suo testimone quando l’autore di Like A Rolling Stone nel 1965 convolò a prime nozze con Sara Lowds, con tanto di dettagli sulla scena del matrimonio.

Naturalmente non mancano esaurienti capitoli che raccontano del loro manager, il grizzly Albert Grossman; degli incontri con i non ancora noti Jimi Hendrix, Velvet Underground (Robbie dice di aver assistito a uno degli sconvolgenti happening passati alla storia come Exploding Plastic Inevitable, peraltro molto naïve a suo parere) e Carly Simon; il bellissimo racconto della cena dove lui e la Band fanno ascoltare per la prima volta Music From Big Pink (1968) a un più che sorpreso Dylan (un disco che ha steso chiunque: da Eric Clapton a Richard Thompson fino ai Kinks, come affermato da tutti loro); di The Weight, la sua canzone più famosa nonché uno dei brani più belli, ricordati e coverizzati degli anni 60 (solo nei primi mesi dall’uscita di quel pezzo si contarono ben 35 versioni altrui, da Aretha Franklin agli Staple Singers; da Jackie DeShannon fino ai Beatles, che ne accennarono il refrain al programma di David Frost dove presentarono Hey Jude; dai Temptations con le Supremes ad Al Kooper & Michael Bloomfield; di Woodstock, festival in cui la Band fu fra le massime star (inizio del loro set poco dopo il tramonto del 3° giorno); l’incontro con il vicino di casa Van Morrison e l’ammirazione per Astral Weeks (1968); la vita mondana nei 70s con Geffen e la connazionale Joni Mitchell.

Senza scordare cose meno prevedibili, come la passione per il cinema del chitarrista/compositore che nasce ben prima dell’incontro con Scorsese (rammentiamo che da Toro scatenato fino al recentissimo The Irishman, Robbie ha curato l’assemblaggio di pressoché tutte le soundtrack dei film girati dal regista newyorkese), con particolare propensione per i maestri della nouvelle vague francese e per lo spagnolo Luis Buñuel. Fra le cose più ricercate, incanta il racconto di come Robertson rimase folgorato da un concerto di Jacques Brel, il famoso chansonnier belga amatissimo anche da Scott Walker, Enzo Jannacci, David Bowie, Pulp, Sunn O))) e Giorgio Gaber: “Nel 1968 la Carnegie Hall ospitò un recital di Jacques Brel – mia moglie Dominique, canadese francofona, insistette per andarvi. Dominique mi anticipò quanto potenti e passionali fossero le sue performance. E devo proprio dire che così fu – semplicemente straordinario. Quando Brel cantò Amsterdam, l’intera sala concerti esplose d’emozione, con tutta la gente sulle poltrone e le mani in aria, gridando le parole della canzone. Tutto molto diverso dai concerti cui ero abituato. Da quel momento Dominique in casa iniziò a metter su tutti i dischi francesi della sua collezione. Quei dischi e vedere Brel dal vivo svilupparono in me una nuova consapevolezza di come la musica potesse essere poetica“.

In definitiva, un libro come Testimony (il titolo è preso dall’omonimo brano del 1987, fra l’altro cantato con Peter Gabriel) è una vera manna per tutti gli appassionati di musica. Tanto più che bisogna dar atto a Robbie Robertson di non esser caduto nel tranello che molti si attendevano – ossia non ha assemblato un libro-risposta a quello di Helm. L’artista ha, semmai, raccontato la storia del gruppo (e di tanto altro) secondo il suo punto di vista: privilegiato, autorevole e soprattutto senza rabbia. In breve: ovviamente dischi a parte, se si vuole una visione completa della Band, Testimony integra una triade di libri indispensabile riguardo il gruppo (Il Gruppo, maiuscolo), con il già evocato testo di Levon e con Across The Great Divide: The Band And America (2003) del giornalista inglese Barney Hoskyns. Il sequel, non si sa né come né quando, per parola di RR stesso è già annunciato – e coprirà dal giorno dopo l’Ultimo valzer agli ultimi scorci, visto pure che solo qualche mese fa abbiamo potuto godere di un suo nuovo album, il buon Sinematic. Restiamo sintonizzati.

Robbie Robertson, Testimony, Jimenez Edizioni, 590 pagine, € 25

Foto: The Band, 1970, © Richard Avedon
Robbie Robertson con Elliot Roberts, David Geffen e Bob Dylan
The Band durante le prove per il loro set al Festival di Woodstock, 1969