Se Frank Zappa è da considerarsi un musicista di classica-contemporanea più che del rock (e musicalmente americano per modo di dire), non è paradossale che il suo messaggio abbia trovato in Europa i seguaci più importanti nei Faust, quanto di più vicino alle Mothers of Invention abbia prodotto il Vecchio Continente. Faust è sia nome proprio, sia il titolo dell’opera più importante di Johann Wolfgang von Goethe; ma significa anche pugno, intendendo forse la loro musica “non potenzialmente commerciale” come Zappa definì la propria. Oltretutto parliamo del gruppo più misterioso che abbia calcato le scene tedesche; ma non è azzardato supporre che il loro punto di partenza sia stato il celebre International Essener Sonntag Festival del 1968, che fra i protagonisti vide proprio Zappa.

Wikipedia fa risalire la loro nascita ufficiale al 1971, nella cittadina di Wümme, in Bassa Sassonia; ma se stiamo alle prime notizie, agli scarni articoli dei primi anni 70, di loro non troviamo pressochè nulla, neppure il nome dei componenti che solo da non molti anni sappiamo essere il bassista Jean-Hervé Péron e il batterista Werner Diermaier, attorniati da collaboratori più o meno fissi: in particolare dal chitarrista Hans Joachim Irmler e dal tastierista Rudolf Sosna. L’assenza di notizie è giustificata dal fatto che i loro Lp sono privi di qualsivoglia riferimento alla band: il 1°, Faust (1971), noto per la radiografia di una mano in copertina, è un disco sperimentale dove si trova un po’ di tutto anche se l’influenza preponderante è zappiana. Si ascolti ad esempio lo scatenamento ritmico di Meadow Meal che fra tempi e controtempi sta esattamente fra il progressive e le Mothers of Invention; o le processioni stravolte di fiati che fanno capolino qua e là a ricordare vagamente il free jazz del sassofonista Albert Ayler, nonché un canto che non so se definire ironico, consapevolmente zappiano o entrambe le cose.

Un piccolo gioiello underground, quindi. Ma la mia preferenza va a So Far (1972), magari dispersivo ma in grado di soddisfare quasi ogni palato; e pur non essendo affatto facile, risulta più digeribile per l’estrema varietà, quasi sconcertante, dei brani: dalla dolcezza di On The Way To Abamäe, al poetico incipit di No Harm che si trasforma in un ritmo duro con un cantato ancora più duro su un testo d’assoluto nonsense; dal cupo borborigmo elettronico di Mamie Is Blue (una specie di Augmn dei Can, ma in una chiave più ritmica), al divertissement di I’ve Got My Car And My Tv. Tuttavia, a restare davvero impresso è So Far, l’unico brano che sia mai stato trasmesso alla radio italiana nel 1974 all’interno del programma Popoff: un ritmo semplice e ripetitivo ma dolce e avvolgente, attraversato da mormorii e da sibili elettronici, vagamente ispirato al riff organistico di Dark Star dei Grateful Dead.

Sarà anche stato per il prezzo ridicolo, fatto sta che The Faust Tapes pubblicato della neonata Virgin Records sbancò in Inghilterra e si sentì parlare di loro anche in Italia: forse perché non inquadrabili, forse perché oggettivamente misteriosi, i Faust non entrarono nei pionieristici 3 articoli sul rock tedesco scritti nel 1973 sul settimanale Ciao 2001 da Maurizio Baiata ma dove, peraltro, So Far godette di una buona recensione.

Disco d’avanguardia che mescola elettronica, rock, funk e jazz, The Faust Tapes è un assemblaggio, un potpourri di nastri frutto di varie prove ed esperimenti incollati fra loro che ci conducono inevitabilmente al Frank Zappa di Uncle Meat e a quello minimalista e sperimentale di Studio Tan e Sleep Dirt. La parte più accessibile, J’ai mal aux dents, è forse l’unico incrocio fra il songwriter e chitarrista di Baltimora e il furore ritmico dei Can.

La Virgin pubblicò anche IV (1973) in una confezione spartanissima e priva di indicazioni sulla band. Album che non riscosse il medesimo successo del precedente, tant’è che l’etichetta discografica non finanziò più incisioni e i Faust scomparvero letteralmente salvo rifarsi vivi negli anni 90 per alcuni mini tour ma soprattutto nel bellissimo documentario della BBC di pochi anni fa dove vediamo uno dei componenti suonare una betoniera (sic!).

Tornando a IV, lo ritengo il loro capolavoro e degno capitolo finale. L’inizio, clamorosamente autoironico, è la mini suite Krautrock con le caratteristiche più indigeste del rock germanico: una snervante lentezza ritmica, l’idiosincrasia per gli assoli, l’inesistenza della voce, una melodia (si fa per dire) incentrata su metronomi e fanfare elettroniche. Il seguito, invece, è più godibile poiché i Faust dimostrano di saper variare di tono toccando registri che sanno di Zappa, rock e jazz, il tutto condito dalla solita ironia e da una sorta di crepuscolare poesia: si ascolti quel capolavoro che è Jennifer.

I brani sono talmente diversi fra loro che è difficile stabilire graduatorie: The Sad Skinhead sembra la canzone di un Lou Reed all’improvviso ironico, Just A Second è un drammatico giro di hard rock processato elettronicamente con un piano dissonante  simile a quello pestato da Mike Garson in Aladdin Sane di David Bowie, mentre il medley Giggy Smile/ Picnic On A Frozen River, Deuxieme Tableau parte da una canzoncina per poi riproporre, introdotta da un sax scatenato, una versione arricchita dello stesso giro di piano della gradevole I’ve Got My Car And My TV.