La scoperta nel 2017 di 7 pianeti extrasolari, apparentemente simili alla Terra, gli avrebbe sicuramente strappato un sorriso facendogli tornare alla mente una sua antica fantasia. Scomparso il 28 gennaio 2016 in quella San Francisco di cui, come pochi altri, ha saputo incarnare lo spirito libertario, Paul Kantner l’ideologo, cantante, compositore e chitarrista ritmico dei Jefferson Airplane non ha purtroppo fatto in tempo a esserne informato. Ne avesse avuto la possibilità, si sarebbe magari chiesto se proprio 1 di quegli astri potesse essere la meta da lui immaginata ai tempi di Blows Against The Empire, l’epocale album che nel novembre del 1970 segnò il temporaneo abbandono dell’Aeroplano Jefferson, velivolo simbolo della Controcultura Californiana; e il lancio in orbita di un’astronave dallo stesso nome (Jefferson Starship) su cui si radunarono le migliori menti della Frisco di allora: lui, Grace Slick (la musa della Bay Area), gli altri Airplane Jack Casady e Joey Covington, il fratello di Jorma Kaukonen, Peter; e ancora David Crosby, David Freiberg dei Quicksilver Messenger Service, Harvey Brooks, Phil Sawyer nonché una nutrita rappresentanza dei Grateful Dead (Jerry Garcia, Bill Kreutzmann e Mickey Hart). La stessa tribù freak, più o meno, che – con qualche aggiunta importante: da Neil Young, a Joni Mitchell – 1 anno dopo si sarebbe incontrata nello stesso studio di registrazione (Wally Heider di San Francisco, aperto da poco) per fissare su nastro un altro sogno collettivo e straordinario, l’If I Could Only Remember My Name di Crosby.

Belli, cool, radicali e sfrontati, i Jefferson Airplane erano stati il gruppo copertina della Summer Of Love. Una stagione irripetibile quanto effimera: mentre giornali, televisioni e turisti si recavano in pellegrinaggio nel quartiere bohémien di Haight Ashbury per annusare da vicino la beautiful people che predicava uno stile di vita alternativo alla vecchia Amerika conservatrice, loro, gli agitatori della prima ora, il 6 ottobre 1967 avevano già inscenato il funerale dell’hippie. Il clima era cambiato. 2 anni dopo, con la Wooden Ships firmata insieme a David Crosby e a Stephen Stills, Kantner avrebbe immaginato di sopravvivere a un’apocalittica guerra nucleare fuggendo su una barca a vela. Ma ora i confini di questo mondo non gli bastavano più: suggestionato dai romanzi di fantascienza che aveva divorato da ragazzo (Isaac Asimov, Ray Bradbury e, su tutti, il Robert A. Heinlein di Stranger In A Strange Land), progettava una fuga virtuale a bordo di un’astronave dirottata verso un altrove dove ricostruire una comunità umana più empatica, pacifica e armoniosa. Una repubblica fondata su “libere menti, liberi corpi, libera droga, libera musica” (inequivocabile il ritratto di Paul incluso nell’interno di copertina, dove sono foglie di marijuana a comporne la capigliatura). Quello il piano, dettagliato in un bizzarro e bellissimo libretto illustrato (per lo più dalla Slick) in cui si invitano “capitani, navigatori astrali, danzatori, esperti di esplosivi” e giovani uomini e donne di belle speranze a unirsi alla missione (data fissata per l’imbarco: il settembre del 1989; tempo previsto del viaggio: dai 3 ai 7 mesi).

Quello il concept di 1 disco che sintetizza il miglior San Francisco Sound dell’epoca e al tempo stesso si sviluppa come un avvincente romanzo di fantascienza (candidato, primo album rock della storia, a 1 Hugo Award, premio dedicato proprio alle opere migliori di science fiction). Un viaggio sonoro il cui ascolto, ancora oggi, scatena l’immaginazione e lascia a bocca aperta. I riff insistenti e le sonorità garage punk dell’iniziale Mau Mau (Amerikon) puzzano ancora di napalm e di Vietnam riproponendo gli attacchi a Richard Nixon, all’establishment e alla vecchia generazione cantati in Volunteers e in Crown Of Creation (“Noi siamo il presente. Noi siamo il futuro. Voi siete il passato”). Al lato opposto dello spettro, la successiva The Baby Tree per voce e banjo è una delicata filastrocca infantile che ricorda le origini musicali di Kantner nei folk club della West Coast.

Poi, con Let’s Go Together e A Child Is Coming (2 perle di acid folk corale e luminoso, in cui gli accordi aperti delle chitarre acustiche si intrecciano agli arpeggi del pianoforte e alle cristalline voci dei protagonisti) l’odissea astrale comincia sul serio. Un trip onirico e avvolgente fra galassie stellate in cui i suoni (soprattutto nel secondo lato dell’Lp, una vera e propria suite) si fanno più notturni e rarefatti, lirici e a tratti sperimentali (i lampi di musica concreta di Home e X:M), tra l’incanto suscitato da una nuova alba e la malinconia che accompagna l’addio definitivo alla Terra: Have You Seen The Stars Tonite?, con le voci all’unisono e l’impareggiabile pedal steel guitar di Jerry Garcia, contende a Space Oddity di David Bowie il titolo di più bella e struggente ballata spaziale di sempre; mentre la conclusiva Starship raggiunge il suo apice in un mistico crescendo che celebra la totale liberazione da ogni gabbia (“All’inizio ero iridescente/Poi diventai trasparente/E alla fine completamente assente”). Quel viaggio resterà un’utopia irrealizzata. Ma quella musica a maglie larghe e di forma libera, romantica e multidimensionale, capace di passare dallo stato solido a quello liquido e gassoso, sopravvive come un manifesto poetico e musicale straordinario della San Francisco di quegli anni. E di uno dei suoi più visionari, appassionati cantori.

Paul Kantner & Jefferson Starship, Blows Against The Empire (1970, RCA)