Un Iggy Pop a ruota libera, improvvisativo, da “buona la prima” perché così dev’essere. Un Iggy Pop che non vuole piacere e perciò piace maledettamente. Disco votato a un avant-garde rock che concettualmente mi piace rapportare all’idea stessa di I Wanna Be Your Dog, Zombie Birdhouse (1982, ristampato in Cd e in Lp) è il 6° album solista di James Osterberg e l’ideale prequel di American Caesar e Avenue B. Ma ripercorriamo i fatti: nell’estate del 1981 il contratto discografico di Iggy con l’Arista va a farsi fottere. La buona notizia, però, è che Chris Stein (chitarrista e co-fondatore dei Blondie insieme a Debbie Harry) sta lanciando la Animal Records ed è intenzionato a finanziargli il nuovo disco. Sicchè agli inizi del 1982 Iggy e il chitarrista Rob DuPrey cominciano a lavorarci sopra a New York, soprattutto nello studio che quest’ultimo allestisce nel suo appartamento sulla Sixth Avenue. Ricevuti 50.000 $ di anticipo dalla label, Iggy divide generosamente a metà con DuPrey i 10.000 $ che gli spettano come rimborso spese. Le registrazioni si svolgono invece a giugno al Blank Tapes, studio a 16 piste particolarmente cheap (il disco viene assemblato senza sforare il budget) con Chris Stein al basso e Clem Burke (l’altro Blondie) alla batteria.
Pubblicato a settembre 1982, Zombie Birdhouse è stato rimasterizzato da Paschal Byrne all’Audio Archive di Londra; aggiunge in scaletta un solido, gutturale rock and roll (Pain And Suffering) con Ivan Kral (Patti Smith Group) alla chitarra e Debbie Harry background vocalist; è accompagnato dalle note di copertina scritte da Irvine Welsh, l’autore di Trainspotting (nei 2 volumi della colonna sonora del film omonimo diretto da Danny Boyle ci sono fra l’altro Lust For Life, The Passenger e Nightclubbing dell’Iggy Pop “berlinese”) e include scatti fotografici della tedesca Esther Friedman: che ha compiuto 19 anni quando nel 1974 si trasferisce da Mannheim a Berlino Ovest, nel 1976 conosce Iggy, vivono nel quartiere di Schöneberg e lei inizia a documentare la loro storia d’amore. Ovviamente è sua la foto sulla copertina del disco: scattata come le altre, una volta concluse le registrazioni, in una vacanza ad Haiti trascorsa con l’Iguana.
Un Iguana determinatissimo, con Zombie Birdhouse, a sperimentare e a deludere le aspettative fino alle estreme conseguenze del flop. Magari, chissà?, emulando David Bowie che in quello stesso 1982 si accolla tutti i rischi possibili con Bertolt Brecht’s Baal. Eppure a rivisitarla, questa gabbia dell’uccellino zombie racchiude in sé tutti i crismi del capolavoro a cominciare da Run Like A Villain, rock animalescamente orecchiabile poiché solo Iggy sa essere guerraffondaio e diplomatico al tempo stesso; per poi proseguire con The Villagers che è come afferrare al volo The Passenger, intingerla nel cianuro e il risultato ti sbatte in faccia anche un monologo che neanche un beatnik.
Eppoi c’è Angry Hills, ballata post punk; e almeno altre 4 (anti)melodie: un ubriacante hillbilly alla rovescia (The Ballad Of Cookie McBride); la sdrucciolevole Ordinary Bummer da Burt Bacharach sotto anfetamine; l’acidissima The Horse Song; la maiuscola Platonic, con un Iggy che quando si dà al crooning è semplicemente strepitoso. E accanto a una Bulldozer di nome e di fatto (scansatevi); a una cannibalesca fusione di technopop e rockabilly (Eat Or Be Eaten) con qualche rima baciata Suicide e all’afrobeat sperimentale di Street Crazies, rimbombo percussivo e spoken word allo stato brado inclusi, a svettare è la metal machine music di Life Of Work e di Watching The News: venefica spirale in loop la prima, con quella specie di gospel fuori da ogni logica e perciò logico; straniante e scostante la seconda, con un avviluppo di voci che è un pugno allo stomaco. Perché zombie sì, ma alla maniera di Iggy Pop.
Foto: © Esther Friedman