Era una bellissima sera d’estate, di quelle che solo Milano sa dare: calda da crepare. Il Naviglio nero trasudava umidità in compagnia di pensionati senza denti e vecchie puttane in disarmo. Più qualche portinaia fuori servizio. E tutti che sputavano i loro anni nell’acqua spenta del canale. Questi scampoli di un mondo in decomposizione usavano trascinare le loro sedie di paglia sull’orlo sboccato del Naviglio. Là sedevano a cercare i pesci nell’acqua girandosi, ogni poco, a osservare la gente del quartiere entrare e uscire dalle loro pupille logore.
Quella sera, come ogni sera, gli abitanti dell’Immacolata avevano abbandonato le case per riversarsi in massa sul marciapiede dell’alzaia che camminava a fianco del Naviglio. Salivano fiacchi fino alla prima curva e scendevano fiacchi di nuovo al ponte. Dal ponte alla curva. Dalla curva al ponte.
Uomini in canottiera e donne in vestaglia. Gli uni, rossi in volto, berciavano tutti insieme di calcio e di donne, gli occhi iniettati di sangue e lo stecco in bocca. Le altre, smorte e sbrindellate, parlavano dei figli a spasso, che vuole dire disoccupati, e delle figlie piene, che vuol dire incinte, passandosi mani unte sul volto e tra i capelli. Tra le gambe degli uni e delle altre razzolavano mocciosetti in mutande che reclamavano a strilli la moneta per il gelato.
In quell’angolo di mondo dimenticato dalla città io ero di casa, per via che c’ero nato e vissuto per quasi vent’anni. I genitori non li avevo nemmeno conosciuti. Mi raccontavano che se n’erano andati non appena mia madre fu in grado di muoversi dopo la mia comparsa all’Immacolata.
Ero stato allevato fin verso i diciott’anni da una vecchia che chiamavo nonna. Morta lei ero rimasto proprio solo. Avevo trovato un letto e un tetto grazie alla generosità di una baldracca in pensione che di notte mi ci lasciava dormire e di giorno l’affittava a ore. Nel mio piccolo mi sbattevo in tutte le maniere per rimediare la moneta, ma non facevo mai pari.
Non stavo né bene né male. Lasciavo le notti cadere dal cielo senza preavviso e il sole fuggire come un ladro alla luce del mattino senza pormi alcun problema. Vivevo, come gli altri giovani del quartiere, sognando di riempirmi di grana all’improvviso con una buona rapina, o con qualche donna ben piazzata a un angolo del centro.
C’era, tuttavia, una certa differenza tra me e gli amici. Mentre loro, oltre che sognare, esercitavano la mano e lo spirito nel mestiere, io mi limitavo a sognare di compiere furti colossali e a immaginare decine di donne che rollavano al mio comando. A sera sognavo di tornare al quartiere tra la generale ammirazione mentre percorrevo l’alzaia che corre col Naviglio sganciando monetine ai mocciosi che mi ballavano intorno. Entravo poi nelle bettole a ordinare da bere per tutti: pensionati strapelati senza pensione, barboni senza letto e vecchie puttane mi sorridevano grati e tutto il locale risplendeva di rosse gengive. Le ragazze mi fissavano ingorde dal profondo dei loro carboni, dove la fame di vita aveva da tempo soffocato timidezza e pudore.
L’urlo di Mani di Fata, guardiano notturno che rientrava il mattino col sole appena nato, troncava a metà la gloria dei miei sogni e io, bruscamente, tornavo a essere il vigliacco. Infatti, sapevo che così mi chiamavano gli amici in mia assenza, quando capitava che essi partivano per un’impresa e io sparivo con oscure e urgenti incombenze.
Mi ero, per questo, mantenuto incensurato. Il che, all’Immacolata, valeva per vigliacco. Io me ne sbattevo e pensavo che il mio destino sarebbe stato diverso dal loro. Una sera passeggiavo nel mio mondo che non amavo, tra la gente che mi cagava male. Ero solo. Gli amici se n’erano andati per una delle solite scorrerie. Sudavo come una fontana. Tra le labbra una mezza cicca bagnata. Davanti a un portone scorsi alcune ragazze che conoscevo. Stavano sedute in circolo appena fuori il portone e ridevano. Le loro risa montavano ai tetti delle case mischiandosi agli umori della notte. Tra di esse scorsi Martina. Il suo riso, più forte degli altri, mi parve come il richiamo di un uccello in amore. Il nome è scarso, ma la ragazza è un fiore. Un viso d’angelo dentro un corpo da sguangetta.
Era sempre sostenuta nei miei riguardi, però ero quasi certo di piacerle. Mi permetteva solo di toccarle le tette quando era strasicura che nessuno ci vedeva. Una volta, eravamo al cinemino dell’oratorio, si lasciò baciare. Io stavo pastrugnandola in mezzo alle cosce quando lei, improvvisamente, avvicinò le sue labbra alle mie. La baciai di volata. Lei ricambiò slinguandomi veloce come avesse la lingua di un serpente. Poi mi rifilò una gomitata nel costato e mi buttò da parte.
Mi avvicinai al gruppetto e la chiamai.
“Che cosa vuoi?”, mi chiese volgendosi con malagrazia.
Le amiche ridacchiarono.
“Vieni a fare quattro passi?”, le domandai gentile.
“E dove mi porti?“, ribatté sfottente.
“Non so …, si può andare a prendere un gelato …“, risposi.
“Ma va là, balordo!“, esclamò ad alta voce.
Le stronzette risero apertamente. E tutte si volsero a riprendere i loro discorsi.
Accesi la mezza cicca che avevo riposto in tasca e alzai i tacchi. Portai gli occhi al cielo nero bucherellato da tremolanti fiammelle e già mi sentii lontano dall’Immacolata. Dalla sua gente malvestita e lercia, dalle case basse e senza cessi, dalle ragazze che si allenavano a fare le battone.
Camminavo lentamente sull’orlo del marciapiede quando uno stridìo improvviso spezzò il corso dei miei pensieri. Schizzai a lato e volsi il capo.
Tony e la macchina mi stavano davanti. Tony era un amico che trattava la neve. L’auto era una splendida fuoriserie, decappottabile, di un giallo brillante. I miei occhi si riempirono di ammirazione. La linea filante e aggressiva colmava tutto il mondo che mi stava di fronte. Tony, al volante, sorrideva compiaciuto.
“Sali, ti porto in vita!“, esclamò.
Lo fissai allochito.
“Sali, pirla!“, ripeté spazientito.
Le ragazze, poco distanti, erano ammutolite, tutte girate verso di noi. Mi fece un piacere della madonna perché c’era anche lei a lasciarci dietro gli occhi. Balzai dentro. L’auto fuggì rombando in libertà.
In pochi secondi ci lasciammo dietro le spalle l’Immacolata e tutto il suo mondo sballato. Assestai le chiappe ben salde sulla morbida pelle e allacciai la cintura. L’aria forte mi asciugò in un attimo la camicia sulla carne. Osservai Tony, il modello a cui m’ero ispirato tante volte. Lui era diverso dagli altri. Mi trattava da amico o anche da fratello minore alle volte e mi regalava una stecca di tanto in tanto. Io gli ero grato di essere sceso all’Immacolata e di avermi aperto un mondo di fuga dove potevo ritirarmi quando ne avevo voglia.
Era un bel ragazzo, giovane e spavaldo, con un paio d’anni più di me. Vestiva da figo. Soldi, macchine e ragazze erano sempre con lui.
“Faccio il solito giro di consegne e poi andiamo a godere“, disse ad alta voce. Poi aggiunse:
“Non fare mai commenti, qualsiasi cosa ti capita davanti agli occhi. Parla solo se io te lo chiedo, capito?“.
Attraversammo mezza città e giungemmo in un lampo al centro. Aria, luci e suoni mi avevano gonfiato occhi e orecchie. Tony percorse alcune viuzze alberate che non parevano neanche appartenere a questa città e andò a fermarsi sotto il buio di un tronco davanti a un cancello di ferro. La luce d’un unico lampione cadeva, fioca e tremolante, dal fogliame addormentato. Spense il motore e mi disse in un sussurro: “Aspettiamo la contessa. È uno dei miei migliori clienti. È mezza matta, ma chi se ne frega. La vedi questa villazza tutta cintata? È sua. Ha una frotta di servi e autisti e non so quante macchine. Una volta mi ha fatto anche entrare. Ce n’è abbastanza da far schiattare tutta l’Immacolata. Un paio di volte ci ho fatto la pensata, poi ho sempre mollato. Preferisco la polvere. È meno rischiosa e rende di più, eccola!“.
Il cancello si ruppe in un angolo e subito una figura curva e minuta riempì di sé lo spazio vuoto aperto dal cancello. Vestiva di scuro, come la notte. Accostò il cancello con calma e mosse verso di noi. Era fatta proprio di quattro ossicini ricoperti di nero. Avanzava lentamente. Nel buio la testa bianca spiccava come un mucchietto di neve sfatta. A un passo dall’auto si fermò.
“Chi è?“, chiese con sospetto.
“Non ci faccia caso, contessa. Lui non parla“, rispose Tony a voce bassissima.
La donnetta mosse un altro passo. Le sue mani stringevano una piccola borsa.
“L’hai portata?“.
“Anche ‘sta volta ce l’ho fatta“, rispose Tony con aria svagata. Quindi riprese con una manfrina come di frasi studiate in precedenza:
“Diventa sempre più difficile: i fornitori aumentano i prezzi e la merce scarseggia. Si prepari a non vedermi più tanto spesso“.
Da sotto il sedile estrasse una scatola di cartone. L’aprì e ne tolse una manciata di bustine.
“Mi dia la grana“.
La sua spavalda malagrazia mi fece quasi male.
La contessa trasse dalla borsa un rotolo di denaro e glielo porse. Tony soppesò il malloppo e le consegnò le bustine.
“Verrò quando posso …“.
“Non mi riguarda“, ribatté la contessa con voce di ghiaccio.
Le alzai gli occhi in faccia, sorpreso da quel tono inaspettato. Anche Tony la guardò in faccia.
“Hai costretto la mia bambina ad amarti e a vivere di quella roba. Ora hai assunto un impegno che ti accompagnerà fino a quando lo decido io. Se mancherai all’appuntamento una sola volta sei finito. Il tempo di scovarti e ti troverai nell’unico posto dove le jene par tuo dovrebbero essere confinate. Io ti denuncerò Tony della malora, in qualsiasi momento. Ho conoscenze abbastanza influenti che salveranno mia figlia dalla vergogna e ti faranno marcire in carcere insieme alla tua dannosa gioventù!“.
Volse le spalle e in un attimo fu oltre il cancello dove scomparve nel buio della notte.
“Non mi sembra che sia così matta…“, dissi piano. Lo guardai. Mi colpirono i suoi occhi dilatati e lucidi. Aveva le guance bagnate di sudore che scivolava sul collo.
“È matta, ho detto! Matta da legare! Sono tutte balle le sue, ma non mi fa paura! E tu chiudi il becco se non vuoi che ti scaraventi fuori!“.
Schizzò via come il lampo. Lo spiai un istante. Schiumava rabbia e paura dalle labbra mezzo aperte. Lo credevo diverso. Ora, però, ne avevo le palle piene di quella gita.
Filammo per parecchie vie. Tony ignorava tutti i semafori rossi gialli o verdi che fossero. Capii che le parole della contessa gli stavano scavando il cervello. Poi, di colpo, la sirena della madama ci fu alle spalle.
“Cristo, la madama!“, urlò Tony.
Serrò con più forza il volante e fuggimmo nel ventre della città. Tony era un ottimo pilota e sapeva calcolare le curve al millimetro. Però gli inseguitori non erano da meno. Ci stavano sempre attaccati al culo. Tony continuava a misurare le curve con il centimetro. Di tanto in tanto lo guardavo, le chiappe strette dalla paura. Anche lui, però, aveva stampata in faccia l’espressione della strizza. Una seconda pantera sbucò all’improvviso da una strada laterale. Si bloccò e si pose per traverso sull’asfalto. Quattro agenti schizzarono fuori, tra le mani mitragliette d’ordinanza.
Tony doveva fermarsi. Non c’era più spazio di fuga. Tony passò. Accennò una frenata e il bolide piegò il muso dentro uno stridore di freni. Poi, di colpo, schiacciò l’acceleratore e balzò innanzi senza curarsi di un agente che era sceso dalla pantera con le braccia allargate. Lo stirò come un topo scappato da un tombino.
Seguì una gragnuola di colpi che pareva venissero da tutte le parti. Mi coprii il volto con le mani. Poi le tolsi e guardai Tony. Un proiettile gli s’era infilato in gola. Una macchia rossa e densa si andava velocemente allargando sul suo bel collo. Provai un curioso impulso: quello di infilare un dito nel buco per frenare l’uscita del sangue. Ma non feci in tempo a mettere in pratica il mio pensiero. Un urto violento dell’auto mi fece sbattere la testa contro il cristallo. Svenni.
C’era tutta l’Immacolata al processo, anche Martina. Si era piazzata in prima fila. A tratti la guardavo e mi pareva ammirata. Tony era morto, io me l’ero cavata con venti giorni di ospedale. Il giudice decise di non credere alla mia estraneità al traffico e smercio della droga. Mi condannò a due anni e sette mesi.
Neanche Martina credeva alla mia innocenza. Lo capivo dai suoi occhi che parevano quasi orgogliosi. Alla fine, quando gli agenti mi portarono via, scivolò leggera alle mie spalle e mi sussurrò:
“Ti aspetto…“.
Fu un solo fiato che avrebbe dovuto regalarmi un po’ di forza. Che non venne.
Anche gli altri dell’Immacolata mi avrebbero atteso. Lo sapevo. Come sapevo che non poteva finire così. Lo sapevo che qualcos’altro doveva succedere. Un bambino che conoscevo, in braccio a sua madre, che conoscevo, allungò una manina e mi salutò in quel modo pulitissimo che i grandi hanno dimenticato. Lo guardai. Gli sorrisi e mi venne da piangere. Prima di uscire dall’aula scortato dagli agenti mi volsi di scatto e, fuori di bocca, esplosero quattro parole che non sarei stato in grado di fermare anche se lo avessi voluto:
“Non tornerò all’Immacolata! Non tornerò mai più nel vostro mondo di merda!“.
Poi fuori dall’aula dove non c’era nessuno tranne gli agenti ed io scoppiai di colpo in un pianto dirotto che non sarei stato in grado di fermare anche se lo avessi voluto.

Fra i romanzi di Sergio Cioncolini, pubblicati da Pendragon, ricordiamo Il cortile del diavolo (2011), I giorni corti (2012), Andava a veder morire i piccioni (2014), L’albero delle bionde (2015), Un’isola sottovento (2016), Un coltello di ceramica verde (2018) e Danni Collaterali (2019)