Per Gillian Welch e David Rawlings, pionieri con cappello e stivali da cowboy del filone folk revival oggi inserito nel grande contenitore dell’Americana, il tempo è sempre stato un concetto importante – Time (The Revelator) è il titolo di 1 dei loro dischi migliori – ma anche dai contorni indefiniti. Da metà anni 90 realizzano dischi con minuziosa cura artigianale e con tempistiche che non tengono conto delle frenetiche dinamiche del moderno mercato discografico. E la loro musica sembra sfuggire ogni volta a precise collocazioni temporali: al netto delle evoluzioni tecnologiche del suono e dei generi musicali, rimanda spesso alla old time music più pura e a un passato immaginario in cui gli anni 30 del secolo scorso si confondono con i 50 e i 70, mentre sono molto più precise le sue coordinate spaziali e geografiche.

Anche stavolta, infatti, si parla di un’America profonda e rurale, di strade e di ferrovie, di fattorie e di stazioni di servizio, di parcheggi e di motel a buon mercato che punteggiano gli immensi spazi del loro habitat naturale. Quel loro modo di porsi e di intendere l’arte che un tempo li faceva apparire come 2 alieni sbarcati nel presente da chissà quale pagina del passato, oggi è universalmente accettato. Considerato persino cool, anzi, come dimostrano le classifiche delle riviste specializzate di fine anno che stanno collocando Woodland ai vertici, in Europa come in patria.

David Rawlings e Gillian Welch
© Alysse Gafkjen

Intanto erano trascorsi ben 13 anni dal loro ultimo disco d’inediti (The Harrow & The Harvest, uscito a nome della sola Welch), seguito da 1 progetto intitolato a Rawlings e da 1 album di cover passato un po’ sotto traccia, ma va detto che stavolta a rallentare ulteriormente i ritmi produttivi della coppia ci si sono messi di mezzo 2 eventi eccezionali. O meglio, 2 autentici cataclismi: il Covid-19 e, l’anno dopo, un violentissimo e mortifero tornado che all’inizio del marzo 2020 ha fatto vittime e danni ingenti a Nasvhille e dintorni scoperchiando i loro Woodland Studios ubicati nella parte orientale della città, fondati nel 1967 negli spazi precedentemente occupati da un cinematografo dal fonico Glenn Snoddy e rilevati dal duo nel 2001.

Un sito storico, in cui echeggiano suoni e fantasmi del passato prossimo e remoto e in cui hanno registrato, fra gli altri, Joan Baez e la Nitty Gritty Dirt Band, Jimmy Buffett e Neil Young, o più recentemente Ryan Adams e Robert Plant con la Band Of Joy. Ha rischiato di scomparire, inghiottito dalla furia degli elementi, 5 ore di pioggia incessante e devastante durante le quali Rawlings, Welch e il loro tour manager e archivista, Glenn Chausse, combattendo il buio pesto armati solo di una torcia elettrica e della luce di 2 smartphone, hanno salvato e messo al sicuro apparecchiature, strumenti e pile di nastri registrati. In sostanza, una parte importante delle loro vite.

Mai come dopo quelle ore terribili di tregenda, il ritorno della luce e del sole è apparso come un segno di salvezza e di resurrezione, una rinascita «con tante cicatrici e storie da raccontare». Nei 4 anni trascorsi a ricostruire pazientemente lo studio, pezzo per pezzo, sono saltati fuori dalle bobine un centinaio di schizzi musicali che si erano accumulati nel tempo e ha preso forma l’idea di pubblicare 1 doppio album, oppure 2 dischi paralleli e contemporanei prendendo spunto da quanto Conor Oberst alias Bright Eyes aveva fatto tempo addietro (fra le ipotesi, quella di dare alle stampe una raccolta di brani incisi senza accompagnatori e una arricchita da una band di supporto; 1 disco con le sole canzoni di Gillian, l’altro con quelle di David). Poi, invece, mettendo in sequenza i 10 episodi che compongono Woodland, Rawlings ne ha individuato una trama e un filo narrativo, selezionando e raccogliendo canzoni che rappresentano «un turbine di contraddizioni. Di vuoti, di pieni, di gioia, di dolore, di distruzione e di permanenza».

Canzoni che raccontano di smarrimenti e di ritrovamenti; di viaggi interrotti e poi ripresi; di rimpianti e di cambiamenti; di demoni che s’insediano nel cuore e strisciano nel cervello; di segnali da decifrare nel suono delle campane e nel cinguettìo degli uccelli; di giocatori di poker e di spietati tutori della legge; di illusioni amorose e di speranze nel futuro. In uno scenario dominato da una natura rigogliosa, orizzonti infiniti e cieli azzurri come quelli che fanno da sfondo alla prima, bellissima canzone: il pigro midtempo di Empty Trainload Of Sky, ispirata a Gillian dal passaggio di uno sbuffante treno merci durante un pomeriggio d’estate e che a suoi occhi si trasforma in un convoglio vuoto in cui filtrano la luce e il blu della volta celeste, in movimento verso chissà dove. È una visione quasi mistica, una rivelazione carica di promesse ma anche d’inquietante mistero. Una classica train song americana, ma onirica e ipnotica, in cui il country folk si macchia di blues mentre attorno al fitto dialogo chitarristico e le alchemiche armonizzazioni vocali dei 2 protagonisti (da sempre un irresistibile e ricorrente punto di forza) cresce la discreta presenza di 1 batteria, di 1 basso, di 1 organo e della pedal steel dell’ottimo Russ Pahl, che ricordiamo al fianco di T Bone Burnett e di Buddy Miller ma anche di Norah Jones, Marcus King e CeeLo Green.

Subito dopo, dolce e malinconica come solo Neil Young sa essere nei suoi momenti più intimisti e indifesi, What We Had trasmette un senso di struggente tenerezza, vagheggiando ciò che si dava per scontato e che oggi non c’è più: alla base di quella ricerca del tempo perduto e di quella nuova consapevolezza sta ovviamente la traumatica esperienza vissuta dalla coppia, mentre alla sezione ritmica e alla pedal steel si aggiungono sullo sfondo, lievi e mai intrusivi, viole, violini e violoncelli arrangiati da Rawlings.

Compaiono anche altrove, i tenui colori dipinti dalla sezione ritmica, dagli archi, dalle tastiere e dagli altri strumenti di contorno, ma di lì in poi l’atmosfera si fa più rarefatta. Con la sua piccola Epiphone Olympic archtop del 1935 in mogano e legno d’abete rosso, arcuata e customizzata, Rawlings ricama con frequenza assoli nitidi e pungenti sfoggiando un piglio e un’energia da chitarrista elettrico anche se suona un’acustica amplificata (così come Welch, che si affida di solito a una Gibson L-50 del 1956). Finalmente accreditato al pari della compagna (come già accaduto nel precedente disco del 2020), con la sua voce dolente ed evocativa intona una toccante ode al suo mentore scomparso, il cantautore texano Guy Clark, in un’altra delicata sinfonia folk tascabile e corale che aggiorna il linguaggio del genere con un titolo appartenente al gergo contemporaneo, Hashtag: “Ridevi e dicevi che sarebbe stata una cattiva notizia/se mai avessi dovuto vedere il tuo nome associato a un hashtag/mmm, cantanti come te ed io facciamo notizia solo quando moriamo ”, canta David trattenendo l’emozione e dichiarandosi candidamente consapevole del fatto che provare a raccogliere il testimone del maestro mettendosi nei suoi panni è un impegno troppo arduo («Non potrò e non lo farò mai»).

L’altro pezzo in cui è sua la voce solista è la scabra Turf The Gambler, dove soffia anche in un’armonica dylaniana mentre il personaggio principale della canzone appare “trafitto ma non morto ”, secondo quel ripetersi di dualismi e contrapposizioni che sottende a tutto il disco, alle sue tante domande seguite da risposte aperte e dubitative. Nella conclusiva canzone d’amore, Howdy Howdy, lui e Gillian duettano come raramente hanno fatto in passato, scambiandosi strofe e avvicendandosi davanti a un unico microfono; mentre al flatpicking di lui, lei risponde arpeggiando un banjo : interpretano la parte di 2 amanti che si promettono fedeltà ma che intanto, dopo avere brindato insieme con un ultimo bicchiere, continuano a incamminarsi per quelle valli solitarie che tutti, bene o male, siamo costretti ad attraversare nel corso dell’esistenza.

La voce di Welch, seducente e magnetica, conduce la danza negli altri pezzi. Nella spettrale e minacciosa Lawman, dove David suona anche un guitjo (una chitarra banjo) e lei veste i panni di una donna sicura che i poliziotti stiano per piombarle in casa con l’intenzione di ucciderle il partner. Fra i trilli e gli zampilli di un incantato folk impressionista – un po’ David Crosby, un po’ Claude Debussy – come The Bells And The Birds. Fra i paesaggi freddi, invernali e innevati di North Country. In The Day That Mississippi Died, dov’è il violino rustico di Keith Secor degli Old Crow Medicine Show a conferire al pezzo un’atmosfera più autenticamente tradizionale e d’altri tempi e in Here Stands A Woman, altro brano dagli echi dylaniani e con una citazione di Woody Guthrie in cui la protagonista abbandonata si guarda allo specchio per vedersi donna e non più ragazza. La sua presa di coscienza e il suo senso di emancipazione sono ancora una volta sentimenti decisamente contemporanei ma anche atemporali. E Woodland si conferma 1 dei migliori dischi del 2024, come forse avrebbe potuto esserlo negli anni 30, 50 o 70 del secolo scorso.