«Quando dipingo vivo un’esperienza che nei momenti più felici trascende la realtà. Quando funziona entri in un’altra sfera, ti avvicini a qualcosa di universale, a un senso di consapevolezza che va oltre te stesso. Il peggior insulto che possano rivolgermi è di essermi venduto. Ho cercato per tutta la vita di lasciarmi coinvolgere da quel che accade nel mondo senza perdere la mia integrità. È stata una battaglia continua. Ma quando hai successo ti fai un sacco di nemici, gente che pensava di meritarlo al posto tuo. Così dicono che ti sei venduto. Io non mi sono mai venduto, mai». Keith Haring dixit nel 1989 a David Sheff, per la rivista Rolling Stone. Dichiarazioni fondamentali – per meglio comprendere sia l’uomo, sia il graffitista – fra le innumerevoli incluse in Keith Haring. L’ultima intervista. Volumetto prezioso e indispensabile, che in realtà ne contiene 3. Le dichiarazioni che avete appena letto, le ho estratte dalla seconda: cioè dall’intervista più interessante in cui l’artista della Pennsylvania, colpito dall’Aids che lo ucciderà 32enne il 16 febbraio 1990, parla del rapporto col pubblico e in particolare coi teenager che spesso coinvolge mentre dipinge i suoi murales. Parla di omosessualità e di droghe; della folgorazione per i quadri di Jean Dubuffet, l’installazione Running Fence di Christo e la pittura di Pierre Alechinsky ammirata al Carnegie Museum di PittsburghEra la prima volta che vedevo una persona adulta e integrata nel sistema che faceva qualcosa di simile ai miei piccoli disegni astratti»); delle sue icone (bimbo radiante, cane, dischi volanti…) ispirate ai “cut-up” di William Burroughs; di quando disegnava coi gessetti nelle stazioni della metro newyorkese.

Parla dell’amico Andy Warhol, del Pop Shop col suo merchandising per tutte le tasche e di quanto apprezza l’arte di Jean-Michel Basquiat. Parla di quanto la malattia gli ha cambiato la vita: «La cosa più terribile è sapere che sarà un lungo, progressivo logoramento, sino alla fine. Mi terrorizza l’idea di svegliarmi un giorno e di non avere più la forza di lavorare. Ma non mi lamento. In un certo senso sapere è quasi un privilegio. Quand’ero piccolo pensavo che sarei morto giovane. Così ho praticamente vissuto come se me lo aspettassi. Ora lo so. Ho fatto tutto quello che volevo. Lo sto ancora facendo».

Fra i suoi capolavori ci sono i Dieci Comandamenti. Monumentali, dipinti per il Musée d’Art Contemporain di Bordeaux e raccontati nel 1985 a Sylvie Couderc: «Li ho interpretati come metafore. Alcuni dei concetti che esprimono mi sono sembrati astratti, così ho cercato di lavorare per antitesi: se per esempio uno dei comandamenti dice di non rubare, nel quadro ho rappresentato qualcuno che sta rubando e così via. Ho rappresentato il contrario di quello che ogni comandamento intima di fare o non fare». L’ultima intervista, che verrà pubblicata su Arts Magazine, ha luogo nel suo studio il 27 gennaio 1990. Gli restano 19 giorni da vivere. Parla con Jason Rubell, studente della Duke University di Durham, in North Carolina. Dice: «Avrei voluto fare disegni sulla sabbia. Disegni nel deserto. Disegni come quelli nelle Ande. Li saprei fare bene. E un parco giochi per bambini. Sarà più facile che realizzare disegni sulla sabbia. Ho dato vita a una fondazione che avrà abbastanza denaro per costruirlo. È un dono che voglio fare a tutti i bambini di New York».

Keith Haring. L’ultima intervista, Abscondita, Collana Miniature, 128 pagine, € 13.50

Foto: Untitled, 1981, © Keith Haring Foundation