The Road Back Home è il risultato di 4 concerti tenuti nell’estate 2023. Quando hai deciso che quelle performance sarebbero state il tuo “prossimo ” disco? Cosa hanno rappresentato per te?
«Posso dire che si tratta di un disco accidentale, dal momento che non era nella lista dei miei progetti. In realtà avremmo dovuto esibirci in Europa durante la scorsa estate, anche perché avevamo almeno un tour in arretrato dal 2022. Anche se ci sembrano passati decenni, non era ancora chiaro come si sarebbe evoluta la questione Covid e abbiamo deciso di posticipare il tour, tant’è che quest’anno stiamo celebrando ben 2 album: The Visit e The Mask And The Mirror. In pratica, la scorsa estate non avevamo in programma nulla e ho pensato che mi sarebbe piaciuto incontrare alcuni musicisti legati alla scena folk e della musica celtica, in Canada, per mettere insieme un set di almeno 60 minuti. Questo anche perché negli anni ho ricevuto parecchie richieste di partecipazione da molti festival folk che però, per un motivo o per l’altro, ho sempre dovuto declinare. Ho quindi iniziato a lavorare con la band che mi avrebbe accompagnato in tour e man mano che le canzoni prendevano corpo ho pensato che avremmo dovuto registrare le performance che stavamo preparando, anche solo come documento per il nostro archivio. Il materiale si è rivelato talmente buono che abbiamo deciso di pubblicarlo. Non si tratta quindi di un disco che era stato pianificato, come ti dicevo, ma il risultato mi piace molto. I festival canadesi sono molto accoglienti: ci sono aree ristoro, installazioni, si respira un senso di appartenenza, un sentire comunitario molto forte. Dipende anche dalla rassegna, certo: ad esempio, il Winnipeg Folk Festival coinvolge sempre tanti artisti internazionali mentre ce ne sono altri di più piccoli, in Ontario, ai quali partecipano principalmente artisti locali… cosa che mi ha riportato al mio passato, sia perché mi capitava spesso di partecipare a eventi come quelli, sia perché sono i luoghi che mi hanno vista crescere artisticamente. Agli inizi della mia carriera sono stata spesso in posti come Manitoba, e una delle prime opportunità che mi diedero per esibirmi fu proprio al Winnipeg Folk Festival. Per me è stato una specie di ritorno a casa».
Cosa ti ha spinta a riproporre brani che non suonavi dai tuoi esordi? Cosa rappresentavano per te allora e quali sfumature di significato assumono oggi?
«Sono cresciuta in una piccola città, Morden, che è nella provincia di Manitoba. Una comunità che viveva di un forte legame con la musica pur non identificandosi con una vera e propria tradizione musicale, non quantomeno quella di origine celtica, alla quale ho iniziato a essere “esposta ” quando ho iniziato a vivere a Winnipeg, alla fine degli anni 70. All’epoca frequentavo un locale di musica folk: ogni domenica notte ero lì e vi incontravo persone che venivano dall’Irlanda o dalla Scozia. Era incredibile: avevano dato vita a una serie di jam session dedicate alla musica tradizionale e in breve eravamo diventati una comunità nella comunità. Ci scambiavamo dischi, “canzoni ”, facevamo serate a casa di questo e di quell’altro, ascoltavamo tantissima musica insieme. I brani che abbiamo incluso in The Road Back Home sono stati scelti per prima cosa per essere suonati durante le date del 2023. Una scelta basata sul pragmatismo, a essere sinceri, visto che non avevo molto tempo per imparare materiale nuovo: anche per questo ho sentito il bisogno di tornare a pezzi che avevo suonato in precedenza, durante alcune “epoche ” della mia vita. I più “vecchi ” erano senza dubbio Mary And The Soldier e Sí Bheag, Sí Mhór, che nel disco è legata a Wild Mountain Thyme. Sono canzoni che mi riportano ai tempi in cui suonavo per le strade e in luoghi come il St. Lawrence Market (il mercato pubblico di Toronto, nda) quando ho iniziato la mia carriera fra il 1985 e il 1987. Ho anche suonato nei mercati pubblici di città come Vancouver e Grandville Island; in Europa invece, Covent Garden a Londra e Grafton Street a Dublino… In pratica, l’album raccoglie alcuni dei brani che mi hanno accompagnato durante i primi anni della mia carriera a cui se ne aggiungono altri, arrivati dopo, come Bonny Portmore. Alcuni pezzi strumentali invece sono stati ri-arrangiati dai Bookends e mi riportano agli anni della mia formazione, quando ascoltavo i dischi della Bothy Band, a cavallo fra gli anni 70 e gli 80. Tutti i pezzi rappresentano per me una specie di casa, un porto franco sonoro e allo stesso tempo un punto di partenza, proprio come i locali folk di cui ti parlavo prima. Per questo ho intitolato l’album The Road Back Home. Nel 1991 ho assistito a una mostra, a Venezia, che mi ha molto colpito. Si è trattato della più esaustiva mostra dedicata ai celti che abbia mai visto (I Celti, Palazzo Grassi, 1991, nda) ed è grazie a essa se ho realizzato che con il loro vasto insieme di tribù hanno rappresentato una “comunità sparsa ” enorme e antica, diffusasi dall’Europa all’Asia minore a partire dal 500 a.C. È da allora che ho iniziato a documentarmi sulla storia dei celti; e in un certo senso le canzoni che ascoltavo quando frequentavo i locali folk di Winnipeg, quelle che cantavo a St. Lawrence Market e che sono finite sull’album, hanno in comune lo stesso viaggio. Anche l’immagine della copertina: le montagne che vedi sullo sfondo rappresentano lo scenario di un viaggio… a cui aggiungo la gioia che nasce dalla condivisione della musica in modo informale, quando non ti stai esibendo ma stai prendendo parte a un evento comunitario».
Musica e cultura possono quindi fornire un riparo e diventare una vera e propria “casa ” per chi ascolta e condivide: che cosa trovano spesso nella musica le persone, che invece magari manca nelle case in cui abitano?
«La musica resta uno straordinario medium nel quale puoi fare esperienza di qualcosa insieme a tante altre persone, nello stesso momento. I greci avevano una parola: agorà, come luogo di condivisione e partecipazione, dove la gente faceva esperienze comuni in un unico intreccio di tempo e di spazio. Nella società contemporanea tendiamo ad isolarci di più, anche solo guardando il cellulare; e siamo portati a sfruttare meno le occasioni in cui potremmo sederci insieme, discutere, vivere istanti di profonda condivisione. Penso all’importanza e al ruolo che anticamente avevano pranzi, banchetti, feste… Sono inoltre altrettanto convinta che la nostra specie abbia un forte bisogno di condividere e di vivere quel particolare sentimento nel quale ci si sente parte di una comunità. La musica facilita e rende possibile questo percorso che può, attraverso le canzoni, “riflettere ” come uno specchio i sentimenti delle persone. Sensazioni che a volte non siamo capaci di esprimere e che proprio la musica ci aiuta a condividere con chi ci sta intorno».
Ho sempre pensato che anche la memoria, il ricordo, possano spesso fare da “casa ” proprio come la musica. Ci sono particolari ricordi che queste canzoni ti hanno riportato alla mente?
«Hai ragione. Per me, il poter tornare indietro ai giorni in cui tutto era più semplice, a quel setting comunitario, è qualcosa di potente e straordinario. Anche l’attuale tour, quello dedicato ai brani di The Visit, rappresenta un esercizio mnemonico costante. Penso che ci sia una specie di nostalgia (in inglese, il termine “nostalgia ” si può tradurre anche come homesickness, cioè nostalgia di casa, simile al concetto di saudade brasiliana, nda) che va a braccetto con ricordo e memoria. A volte il pensiero torna a un periodo specifico della tua vita, che può anche essere stato piacevole. Riviverlo, instaurare un ponte, un rapporto di continuità con il passato, può essere veramente consolante».
Ci sono canzoni fra quelle che hai recuperato dal tuo passato che ti hanno sorpreso la prima volta che sei tornata a cantarle?
«Credo sia Searching For Lambs il brano che non suonavo da più tempo; e penso sia stato proprio quello che mi ha maggiormente sorpresa, dopo tutti questi anni. La sua melodia, la semplicità della storia che narra, mi hanno ricordato che le cose non devono necessariamente essere super complesse e che non servono arrangiamenti particolarmente raffinati per veicolare una simile forza poetica. Poi, per carità, potrei anche essere poco obiettiva. Voglio dire: quando canti una canzone, non riesci secondo me a rapportarti a essa in modo oggettivo. Ricordo però che la prima volta che l’ho cantata, durante le prove, mi sono sorpresa e ho pensato: “Questa canzone, questo mood… mi mancavano! ”».
Fra i brani strumentali spicca Custom Gap, che brilla della forza, del potere e della magia della danza: cosa puoi dirci di questo pezzo e più in generale degli altri strumentali del disco?
«Custom Gap è uno dei pezzi che ero solita ascoltare nei folk club di Winnipeg, negli anni 70 e l’ho scelto per 2 motivi: perché volevo tornare a quei momenti e perché l’ho sempre amato. Esprime un forte contrasto e sprigiona un’energia fortissima. Gli altri brani, invece, mi sono stati proposti dalla band. Si inserivano molto bene nella setlist e abbiamo pertanto pensato d’inserirli nel disco. Fra questi, Greystones è sicuramente uno dei più interessanti. È una composizione originale di Cait Watson (flautista dei Bookends), che ha passato molto tempo a Greystones, una cittadina irlandese poco distante da Dublino. Un luogo al quale anch’io sono molto legata perché l’ho frequentato per molti anni. Nel 1988 lavoravo come compositrice e performer all’Abbey Theatre di Dublino e alloggiavo in un bed & breakfast vicinissimo a Greystones. Che paese splendido! Ci passavo quotidianamente in bicicletta e adoravo passeggiare immersa in quel panorama stupendo e ho trovato molto bello il fatto che vi avesse già dedicato un brano. Volevo inoltre dare spazio anche alla musica della band, condividerla con loro e con il pubblico».
Trovo molto significativa anche la presenza di Bonny Portmore, dal momento che parla della scomparsa di una foresta che è un tema terribilmente attuale. La tristezza, la disperazione dei piccoli uccelli che non trovano più la quercia su cui posarsi dovrebbe oltretutto essere la nostra stessa disperazione. Cosa puoi dirci di questo brano, anche in considerazione del fatto che l’avevi già pubblicato su The Visit ?
«È una canzone che si lega alle mie profonde radici celtiche. Questi, analogamente alle persone originarie del Nord America e di alcune comunità rurali, hanno sempre avuto una forte connessione con il mondo della natura. Il legame che poi connette i celti agli alberi è sempre stato talmente profondo da portarli ad elaborare gli Ogham, i caratteri dell’alfabeto usato dai druidi, che per l’appunto era basato su diverse qualità di alberi. La loro importanza è sotto gli occhi di tutti; e non solo perché ci donano ossigeno. Bonny Portmore è una canzone che s’inserisce in questa linea di continuità che parte dai celti, arriva ai giorni nostri e celebra l’importanza delle piante in quanto creature fondamentali per l’esistenza e la vita su questo pianeta. Molti di noi stanno diventando sempre più consapevoli di come tutto sia connesso: gli alberi, il cambiamento climatico, la biodiversità, gli animali selvatici… qualcosa di cui si parlava anche nel 1990, l’anno in cui mi sono imbattuta in questo brano. Corsi e ricorsi storici, ma non solo: la canzone risale a un’epoca in cui l’Irlanda e tutte le sue risorse erano sotto il controllo dell’Inghilterra. In quegli anni molte foreste vennero abbattute per poter fornire materie prime all’industria navale che era una delle più importanti dell’Impero Britannico, che si estendeva fino al Nord America, Canada incluso. Una deforestazione perseguita sistematicamente in zone come Quebec e Ontario, dove si trova l’Algonquin Logging Museum, altro posto straordinario in cui mi capita spesso di andare e di riflettere, ogni volta, su tutto il legname che è stato raccolto lì e al tragitto che ha fatto attraverso il St. Lawrence River fino a Quebec City, per poi essere portato in Inghilterra. Penso spesso alla grande carestia degli anni 40 (dell’800), che costrinse molti irlandesi a emigrare a causa delle politiche economiche britanniche… e tutto mi riporta a Bonny Portmore! Una canzona che unisce passato e presente, verità storica, attualità, poesia e narrazione. Un inno al rispetto per l’ambiente, per la biodiversità e la natura incontaminata».
© John Fearnall
In che modo la natura stessa può portarci a vivere in modo più semplice in cui tutti si sentano più connessi fra loro e con l’ambiente?
«Chi s’impegna a portare avanti concetti come il rispetto per la natura, ha l’opportunità di ricordare, incoraggiare e spingere le persone a considerare uno stile di vita più semplice. Un’idea di ricchezza che sto iniziando ad apprezzare in modo profondo, da quando frequento le popolazioni indigene e locali. C’è una frase che secondo me racchiude gran parte di questa visione del mondo: “Non prendere più di ciò che hai bisogno e utilizza tutto ciò che prendi ”. Una frase della botanica e scrittrice Robin Wall Kimmerer, tratta dal libro Braiding Sweetgrass: Indigenous Wisdom, Scientific Knowledge And The Teachings Of Plants. Sono profondamente interessata al cammino che abbiamo fatto per arrivare dove siamo oggi come specie; e per quanto non sia né un’accademica né una storica ma solo un’appassionata lettrice, penso che dobbiamo prepararci a un bello scossone. Voglio dire: la rivoluzione industriale, l’avvento dei combustibili fossili, il progresso tecnologico che ha scardinato il progresso morale… abbiamo preso una piega che rischia di farci deragliare e credo la natura sia pronta a farsi sentire, con modalità eclatanti. Razionalmente, credo che ciascuno di noi riesca a capirlo. Io posso parlarne sul palco, durante i miei concerti, posso “cantarlo ”, scriverlo nelle liner notes dei miei dischi ma deve necessariamente prendere forma anche una massa critica. Dovrebbe nascere un movimento e se ci pensi, la cosa triste è che le potenzialità tecnologiche, le “connessioni ”, ci sarebbero anche; ma preferiamo usare tutta questa tecnologia per altro, se non addirittura contro noi stessi. Non credo potrà andare avanti ancora per molto. Dobbiamo sensibilizzare, spingere le persone a prendere coscienza e a fare la loro parte. Non è uno sport e non possiamo pensarci e vederci come semplici spettatori, in questa faccenda. La democrazia è partecipazione, non è concepita come qualcosa di cui si possa essere osservatori passivi. E la musica può giocare più di un ruolo in tutto ciò, certamente. Vivo in una fattoria e dedico molto tempo a piantare alberi, a dedicarmi della gestione del pascolo, promuovo l’agricoltura rigenerativa e vedo che la risposta degli animali selvatici e degli uccelli è positiva. Quindi, quando salgo su un palco e ho la possibilità di diffondere il messaggio di Bonny Portmore, lo faccio cercando di valorizzare il momento, di renderlo significativo».
Cos’altro puoi dirci riguardo al libro di Robin Wall Kimmerer?
«Per me è stata e continua a essere una lettura molto importante, perché si collega alla connessione che abbiamo iniziato a creare con le piccole comunità canadesi. Realtà che hanno ciascuna la propria cultura, la propria identità e che si caratterizzano per diversi aspetti, che a volte le rendono anche molto differenti fra loro. C’è una cosa, però, che le accomuna: l’innata consapevolezza del fatto che il mondo della natura coincida con il divino, con tutto ciò che è sacro. Sono caratterizzate da un senso del sacro che si lega a un profondo senso di gratitudine. Nei loro rituali c’è un intero processo che abbraccia il concetto di grazia e di riconoscenza e mi ricorda che noi, in quanto specie, non dobbiamo dimenticare il legame che abbiamo con la natura. Purtroppo ci siamo convinti di poter fare tutto e ci siamo sostituiti agli dei: progettiamo di andare su Marte, pensiamo di poter potenzialmente inventare tutto ciò che vogliamo e in tutto questo siamo sempre meno umili. Ciò che mi ha colpito del suo libro e in particolar modo della frase che ti ho citato, è stata la sua lucida semplicità, ai margini del mondo iperconsumistico che abbiamo via via plasmato…».
Ci sono canzoni che avete registrato durante i concerti del 2023 che però non avete incluso nel disco?
«Ce n’è una, The Blacksmith. Quando abbiamo deciso di stampare il disco in vinile, ci siamo resi conto che non ci sarebbero state tutte quindi ho dovuto fare una scelta… purtroppo la performance di quel brano era la meno convincente di tutte e abbiamo deciso di lasciarla fuori…».
Il tuo prossimo tour ti vede impegnata nella celebrazione di 2 dischi nello specifico: The Visit e The Mask And The Mirror. Hai pensato comunque d’includere nelle setlist alcuni brani di The Road Back Home?
«Al momento ho in mente di farne almeno 2. Stiamo ancora assemblando le scalette dei brani che porteremo in tour insieme ai 2 dischi di cui festeggiamo l’anniversario. Considera che in The Visit io avevo inciso una versione di On A Bright May Morning e come encore ho suonato Wild Mountain Thyme… Inoltre ho invitato la gente, e lo puoi sentire proprio nel disco, a considerare d’imparare i ritornelli delle canzoni. C’è una bella differenza fra esibirsi e cantare una canzone insieme a degli sconosciuti. Una sfumatura alla base di un’emozione indescrivibile e se ci pensi anche questo ci rimanda a un vivere comunitario antico, a un’abitudine che la gente ha consolidato nei millenni: suonare insieme, cantare insieme, danzare insieme. C’è qualcosa di unico e di eccezionale in tutto ciò. Per questo esorto la gente a imparare le canzoni e a cantare con me. Lo scorso 6 marzo, durante il concerto che abbiamo tenuto ad Eindhoven è accaduta una cosa fantastica: a un certo punto mi sono accorta che la gente stava cantando con il cuore, serenamente; per questo ho fatto un passo indietro e ho guardato quello che non era più “il pubblico ” ma un gruppo di persone che cantava insieme a me. Mi sono fermata ad ascoltare la forza, l’energia con cui stavano cantando e mi sono detta: “Oh sì! ”. Per me è stato il momento più bello di tutta la notte. Questo credo sia il senso profondo di ciò che faccio: non dimenticare questo aspetto della nostra umanità, il modo in cui si lega alla musica e questo ritorna a quel piccolo club di musica folk a Winnipeg, Manitoba, di cui ti parlavo all’inizio di questa intervista…».