Eravamo in tanti negli anni 70 a sentirci come Marco, il collezionista di dischi cantato da Eugenio Finardi in Musica ribelle, che sognava di “andare in California o alle porte del cosmo che stanno su in Germania”. Lassù, nel cuore dell’Europa continentale, era germogliato quello che gli inglesi in modo un po’ sprezzante e generico avevano battezzato krautrock: un fertile vivaio di gruppi e di artisti anche molto diversi fra loro. Coraggiosi, innovativi, spericolati, votati alla sperimentazione.

Tutti oggi ricordano e celebrano i Can di Tago Mago e di Ege Bamyasi, trendy e di culto come non mai. Ma la scomparsa il 2 gennaio scorso del polistrumentista Chris Karrer, riporta alla memoria altri pionieri di quella scena: gli Amon Düül II, che con 4 componenti storici in formazione (lui compreso) si erano rimessi a fare musica insieme approdando nel 2018 anche in Italia al Prog Festival di Veruno, in provincia di Novara.

Lo ricordiamo sul palco con un borsalino in testa e un foulard al collo, esile, fragile ma ancora ispirato e in palla, mentre come sempre si alternava fra una chitarra e un violino dalle sonorità lancinanti, dialogando con l’altra 6 corde elettrica di John Weinzierl e con la voce stentorea di Renate Knaup Krötenschwanz. Avevano ancora un aspetto da hippie radicali, come alla fine degli anni 60: quando in una Monaco di Baviera scossa dal gap generazionale e dagli scontri violenti fra studenti e polizia, si erano incontrati in una comune di artisti anarchici e antisistema che ebbe anche fortuiti e pericolosi incroci con 2 dei fondatori della Rote Armee Fraktion (RAF), Andreas Baader e Gudrun Ensslin, mentre esplodevano il terrorismo rosso e la lotta armata.

Vivendo una vita ostinatamente alternativa in quel clima cupo ma febbrile, teso ma ricco di slanci ideali e creativi, avevano sfornato album come Phallus Dei e i doppi Tanz der Lemminge e Yeti (scelto dal discepolo Julian Cope per illustrare la copertina della sua celebre guida all’ascolto Krautrocksampler), eruzioni vulcaniche di musica in gran parte improvvisata, lapilli di lava incandescente che mescolavano acid rock, free jazz, musica etnica ed elettronica dando vita a una sequenza di sabba orgiastici e tribali che li imposero all’avanguardia di un movimento articolato che oltre a loro e ai Can vedeva imporsi all’attenzione nomi come Tangerine Dream e Faust, Popol Vuh e Ash Ra Tempel, Neu! e Kraftwerk, Cluster ed Embryo (di cui anche Karrer fece parte): tutti intrepidi corrieri cosmici con lo sguardo proiettato verso il futuro e la testa in un’altra dimensione, secondo la famosa definizione coniata dal giornalista e produttore discografico Rolf-Ulrich Kaiser.

Quando nelle vetrine dei negozi di dischi (anche italiani) si affacciò la surreale e colorata copertina di Carnival In Babylon, gli appassionati di musica underground non si fecero pregare per acquistare l’Lp anche se immediatamente qualcuno, critici compresi, iniziò a parlare di tradimento. Incoraggiati dalla casa discografica United Artists, gli Amon Düül II si erano in qualche modo “commercializzati ”: rivolgendosi a un pubblico internazionale e non più solo tedesco, cercavano di conferire una struttura più solida e disciplinata alla loro proposta musicale offrendo 37 stringati minuti di musica più melodica e rilassata, meno oscura e intransigente, che conquistò anche John Peel, il disc jockey radiofonico della BBC dalle antenne sempre dritte e che allora, in Inghilterra e non solo, era un opinion maker di grande credibilità e con un grosso seguito.

Qualcuno gli appiccicò addosso l’etichetta di “Jefferson Airplane tedeschi ”, e il paragone non suona del tutto fuori luogo. Non solo per la presenza in formazione di una cantante, Renate, che finalmente conquistava un ruolo centrale alla maniera di Grace Slick pur non avendone il carisma e la potenza vocale, ma per certi intrecci chitarristici che evocavano la California psichedelica tardi anni 60 dei Jefferson e dei Quicksilver Messenger Service appena spruzzata di pathos wagneriano e teutonica tetraggine.

Succedeva di continuo, sulle 2 brevi facciate di un album che si apriva con il motivo orientaleggiante di C.I.D. In Uruk, l’unico brano cantato in tedesco, aperto da suoni che rammentavano i gamelan indonesiani e in cui il fraseggio chitarristico spagnoleggiante di Weinzierl, autore del pezzo, sembrava ispirarsi esplicitamente allo stile di John Cipollina in Happy Trails; subito dopo All The Years ‘Round alternava strofe trasognate a incisi impetuosi prima di sfociare in un serrato epilogo (assente nella versione “edit ” tagliata di oltre 3 minuti e pubblicata come 45 giri), con 2 acide chitarre che si attorcigliavano intorno a un riff arabeggiante mentre sul 2° lato, in Kronwinkl 12, le voci in stile Airplane si appoggiavano su accordi e su un beat quasi funk.

Erano canzoni più brevi del solito e relativamente convenzionali, colorate di un rosso saturo e purpureo come la lussureggiante vegetazione fra cui i musicisti apparivano all’interno della copertina apribile dell’Lp. Ma sempre sul punto di deragliare, di perdere l’equilibrio, di partire per la tangente, di mancare clamorosamente l’appuntamento con le battute come se i riflessi fossero rallentati dall’uso eccessivo di sostanze psicotrope. Con l’apertura improvvisa di sprazzi onirici e dissonanti perfettamente in linea con il surrealismo dei testi anche quando erano le chitarre acustiche e gli strumenti senza spina a prendere il sopravvento nei 2 pezzi firmati da Karrer: Shimmering Sand, una sballata ballata in chiave folk rock che sbandava alla maniera della Incredible String Band deformando la sua sagoma in mezzo a un labirinto di specchi; e poi il raga folk di Tables Are Turned, con il batterista e percussionista Danny Fichelscher alle tablas, le voci senza freni, una 12 corde acustica e l’elettrica trattata con l’effetto flanger.

Oltre che con la chitarra e con il suo violino zingaresco, Karrer colorava la musica con un sax soprano alternandosi allo strumento con il coproduttore e vecchio compare Olaf Kübler, mentre Karl-Heinz Hausmann ricamava arabeschi con i synth elettronici e con l’organo Farfisa. Alle session presso i Bavaria Studios di Monaco intervennero anche altri vecchi membri della comune quali Peter Leopold (batteria, tamburello) e Falk Ulrich Rogner (organo), temporaneamente uscito dal gruppo ma responsabile del progetto grafico e delle foto di copertina, mentre il basso elettrico di Lothar Meid era il cuore pulsante del disco, una presenza fisica prominente che con un “giro ” insinuante introduceva la conclusiva Hawknose Harlequin: opera corale di 9 minuti e 49 secondi con 6 autori accreditati che divagando tra jam, trip, sogni a occhi aperti, dissolvenze e riprese riportava in vita gli Amon Düül II dei primi dischi ricordando i Pink Floyd di Ummagumma e di Meddle (quasi scimmiottati quando la chitarra elettrica replicava il famoso ”effetto gabbiano “ creato da David Gilmour in Echoes attraverso il pedale del wah wah).

L’anno successivo un altro album, Wolf City, avrebbe confermato che la band aveva preso una direzione interessante anche se il suo stato di grazia sarebbe stato di breve durata: la scena rock e la Germania erano già cambiate; collettivismo e spirito comunitario stavano diventando concetti desueti nell’era dell’individualismo; il pacifismo anarchico era stato definitivamente soppiantato dalla violenza armata. Non era più tempo per gli aneliti libertari degli Amon Düül II, per quella loro musica anarchica e senza padroni.

Amon Düül II, Carnival In Babylon (1972, United Artists)