Immaginatevi il posto. Un cottage in cima a una scogliera, con 3 grandi vetrate – una centrale, 2 d’angolo – che si aprono sulla vastità dell’Oceano Pacifico. «Lì ti sentivi come il capitano di una nave che veleggia nell’aria», ha spiegato qualche anno fa la proprietaria dell’abitazione, Catherine Merrill, a Martin Aston della rivista Mojo. «La luna piena si rifletteva sulla superficie del mare creando un sentiero argentato che conduceva verso la casa». Catherine era amica di Gene Clark e di sua moglie Carlie; e nel 1974 affittò loro il suo chalet in Lansing Street a Mendocino, mentre erano in corso i lavori di ristrutturazione della villetta che la coppia si era comprata ad Albion, 15 minuti d’auto più a Sud.

Mendocino, California settentrionale. Un villaggio di 700 anime lontano dalle opportunità ma anche dalle tentazioni di Los Angeles, la città degli angeli che per Gene era diventata un luogo di dannazione. 7 anni prima, l’ex ragazzo di campagna del Missouri aveva detto addio allo stardom e ai Byrds, la band di cui era il frontman, il sex symbol e l’autore principale, per sfuggire alle gelosie e ai conflitti con i compagni (soprattutto con Jim Roger McGuinn e con David Crosby, gli altri 2 songwriter in perenne competizione con lui); per scappare dal music business, dagli impegni promozionali, dai manager e dagli avvocati; per evitare i tour, i viaggi in aereo da cui era terrorizzato e le medicine con cui cercava di calmare i suoi demoni, alcol e coca, alimentando le tendenze autodistruttive di un carattere terribilmente umorale (colpa, forse, anche di un disordine bipolare mai propriamente diagnosticato).

In seguito aveva pubblicato dischi con i Gosdin Brothers e con il banjoista bluegrass Doug Dillard (un altro tipo incline a fare festa e cacciarsi nei guai), oltre a una bella sequenza di album solisti (magnifico, intimista e crepuscolare White Light, 1971). Sempre più lontano dai riflettori, sempre più ai margini del mercato. Finché nell’ottobre del 1972 il discografico David Geffen convince i 5 Byrds originali – lui, McGuinn, Crosby, Chris Hillman e Michael Clarke – a rimettersi insieme e a incidere 1 album per la sua lanciatissima casa discografica, la Asylum, che aveva già messo sotto contratto Jackson Browne, Linda Ronstadt, Joni Mitchell, gli Eagles, Tom Waits e persino Bob Dylan, strappato momentaneamente alla Columbia. Il disco è un mezzo flop, la magia non si replica a comando, ma è proprio Gene a fornire il materiale di qualità migliore e Geffen gli offre un contratto per 1 disco solista.

Gene Clark
(1944-1991)

Clark ha in mano altre nuove canzoni, ispirate dalla contemplazione dell’oceano e dei panorami idilliaci di Mendocino. Cova aria di rivalsa, di ritorno in grande stile. I tempi sono cambiati, così i look e gli stili musicali; e anche Gene, il “cowboy cosmico” che sta per compiere 30 anni, si adatta adottando una spiazzante immagine glam: occhi bistrati e labbra truccate, magliette aderenti, pantaloni a zampa d’elefante e jeans tempestati di fiori e farfalle, zatteroni ai piedi. Torna a Los Angeles, negli studi Village Recorder, per tuffarsi in 2 mesi di session senza fine pilotate da Thomas Jefferson Kaye, un artista e produttore che aveva lavorato con le Shirelles e i Three Dog Night e che per la Asylum ha appena sfornato l’album omonimo di Bob Neuwirth (un fiasco commerciale costato moltissimo). Emulo di Phil Spector e di Brian Wilson, anche stavolta non bada a spese chiamando in studio un esercito di musicisti e di turnisti e facendo lievitare i costi a 100.000 dollari: quando a Geffen viene presentato il risultato, 8 brani appena senza uno straccio di potenziale singolo, questi strilla «Portatemi un cazzo di album come si deve!» e getta la prova di stampa nel cestino senza neanche degnarla di un ascolto.

Eppure i crediti elencano nomi straordinari: Jerry McGee dei Ventures; Buzz Feiten, Danny Kortchmar, Stephen Bruton e il nativo americano Jesse Ed Davis (che aveva prodotto White Light) alle chitarre; Ben Keith (il fedele collaboratore di Neil Young) alla pedal steel; Leland Sklar al basso; Russ Kunkel e Butch Trucks della Allman Brothers Band alla batteria; Joe Lala dei Manassas alle percussioni; Richard Greene (stella del progressive bluegrass) al violino; Michael Utley e Craig Doerge alle tastiere; Hillman al mandolino; Timothy B. Schmit degli Eagles come cantante accanto a Claudia Linnear, Venetta Fields e Carlena Williams, le coriste dei Pink Floyd e dei Mad Dogs di Joe Cocker.

Kaye accatasta pile di strumenti e sovraincisioni creando un sound denso, stratificato e colorato come la copertina in stile Liberty dell’album. Ma No Other non suona mai inutilmente ridondante: è un piccolo miracolo di equilibrio, come un elefante che si muove con leggerezza ed eleganza senza fare danni in una cristalleria. Le scelte produttive sono funzionali alle calde tonalità baritonali e alle ambizioni Clark, lo “Shakespeare hillbilly ” che non legge un libro ma discetta con i suoi celebri amici Dennis Hopper e David Carradine di filosofia Zen, di Carlos Castaneda e di Madame Blavatsky. Qualche anno dopo preciserà alla rivista ZigZag il suo intento di allora: trovare un punto d’incontro fra la spiritualità di Innervisions di Stevie Wonder e la carnalità di Goats Head Soup dei Rolling Stones. Influenze musicali dichiarate ma non immediatamente percepibili, in un disco che nell’abbrivio incalzante di Life’s Greatest Fool depista un po’ l’ascoltatore lasciandolo impreparato a ciò che arriverà dopo. Si respira, lì, aria di country rock, di Gram Parsons e di Sweetheart Of The Rodeo, come succederà più avanti nella dolce e apparentemente spensierata The True One. Ma il resto è musica più introspettiva, più mistica, più estatica. Più in linea, forse, con le articolate meditazioni filosofiche dei testi.

Silver Raven, che Clark canterà fino alla fine dei suoi giorni, prende spunto da una notizia di cronaca su un oggetto non identificato proveniente da un pianeta collocato al di fuori del sistema solare: suona cosmica e avvolgente, con una meravigliosa vena gospel folk che ammanta anche la dolente Some Misunderstanding, 1 dei pezzi chiave dell’Lp. Strenght Of Strings, malinconica, epica e corale, evoca le tradizioni musicali native americane per descrivere il processo inconscio attraverso cui assimiliamo la musica. From A Silver Phail è un altro raggio di luce che affonda in un cono d’ombra: titolo e testo sembrano contenere riferimenti alla tossicodipendenza, alla cocaina che alimenta una stordita session notturna durante la quale Gene confeziona con il vecchio amico Dillard un meraviglioso omaggio alla moglie, il “volo in paradiso ” di Lady Of The North con un crescendo finale in cui piano, violino e chitarra wah wah si inseguono e si fondono tra loro.

Il pezzo che intitola il disco è l’outsider della raccolta: un country funk scandito dal piano elettrico (eccolo, Stevie Wonder) e da un groove forse ispirato dalla presenza in studio di Sylvester Stewart alias Sly Stone, mentre Jefferson Kaye escogita un trucco originale: doppia la voce di Clark e la filtra attraverso una delle linee telefoniche dello studio per ottenere un suono spettrale e cavernoso. È il momento più sperimentale di No Other: un disco inebriante e vertiginoso, un vortice sonoro che ti risucchia come le onde di risacca dell’oceano prendendoti di sorpresa per scaraventarti in un universo parallelo in cui terra, mare, cielo e spazi siderali si confondono.

Un’onda impetuosa che all’epoca s’infrange contro l’indifferenza della critica e del pubblico, complice forse anche una promozione non adeguata: tanto che dopo 2 anni appena la Asylum lo cancellerà dal suo catalogo. Clark, che continuerà giustamente a considerarlo il suo capolavoro incompreso, non si riprenderà mai completamente dallo shock e farà appena in tempo a vederlo finalmente stampato su Cd prima di morire nel 1991. Sarà poi la 4AD inglese, nel 2019, a ridargli la dignità e il prestigio che merita con multiple edizioni comprendenti remixaggi a cura di un fan della prima ora come Sid Griffin dei Long Ryders e del leggendario fonico John Wood, artefice dei dischi di Nick Drake e di tutto il miglior folk rock inglese. È il destino dei grandi dischi di culto: troppo preziosi, personali e sofferti per lasciarsi mettere subito a nudo senza pudori. Solo ad anni di distanza, di No Other si è colta la grandezza, la purezza, lo slancio ideale e creativo. Quello sguardo ferito e speranzoso, quell’anelito di pace e di armonia con l’universo che nella vita terrena Gene non avrebbe mai raggiunto.

Gene Clark, No Other (1974, Asylum)