«Ho avuto una pazza idea e mi sono messo alla ricerca di musicisti che forse non pensavano che fosse così folle», spiega Dave Alvin sul sito dei Third Mind, il supergruppo un po’ indie e un po’ classic rock che a fianco del cantautore e chitarrista californiano cofondatore dei Blasters schiera Victor Krummenacher (ex Camper Van Beethoven, Cracker) al basso, David Immerglück (Counting Crows, Camper Van Beethoven, John Hiatt) alla seconda chitarra, Michael Jerome (Better Than Ezra, John Cale, Charlie Musselwhite, Richard Thompson) alla batteria e alle percussioni e, ora in pianta stabile, Jesse Sykes, titolare di 4 album con gli Sweet Hereafter che oltre a cantare imbraccia una 6 corde acustica.

L’idea che sta alla base dell’album appena uscito e intitolato semplicemente Third Mind/2 è la stessa del debutto di 3 anni fa: prendere a modello il modus operandi adottato da Miles Davis e dal suo produttore Teo Macero per Bitches Brew e Jack Johnson, i dischi della svolta elettrica che all’inizio degli anni 70 hanno rivoluzionato la storia del jazz inventando la fusion; in altre parole, «raccogliere in studio grandi musicisti, scegliere una tonalità e un groove e registrare tutto dal vivo nell’arco di diverse giornate».

Third Mind

Votata alla psichedelìa nel nome (ripreso dal titolo di un celebre libro di William S. Burroughs e Brion Gysin) nelle grafiche di video e copertine e nella scelta del repertorio, la band della “Terza Mente ” ha deciso di rivisitare classici più o meno noti degli anni 60 limitando al minimo (almeno per ora) le composizioni inedite e originali. Lo aveva fatto nel 2020 e lo ripete in questo disco attingendo in alcuni casi al catalogo degli stessi autori, Paul Butterfield, Mike Bloomfield e Fred Neil, fra rock blues lisergico e canzone d’autore di scuola Greenwich Village.

La voce della Sykes, tremolante e spettrale come la fiamma di una candela, è un “acquired taste “, come dicono gli angloamericani: è divisiva, richiede tempo e ascolti per essere apprezzata, ha un’innegabile qualità seducente ma non spicca certo per varietà timbrica e di sfumature (la spara un po’ grossa, Alvin, quando la definisce come un incrocio tra Sandy Denny e Grace Slick). È l’elemento meno robusto ma anche opportunamente etereo in un progetto artistico che tiene fede alle sue premesse e alle sue promesse generando musica aperta all’improvvisazione, registrata in un’unica take da musicisti che si sono ritrovati a suonare tutti insieme nello stesso momento senza avere effettuato prove preventive o avere studiato in anticipo qualche arrangiamento. Una questione di azione e reazione, di alchimìe e di combustioni spontanee.

Duelli di chitarre elettriche come ai tempi dei Quicksilver Messenger Service e dei Moby Grape (con le tastiere aggiunte di Willie Aron) infiammano un disco in cui Alvin e Immerglück intessono un fitto dialogo sfoggiando stili diversi, scambiandosi riff e lick, generando riverberi, feedback e dissonanze – a volte sui 2 diversi canali stereo – per poi lanciarsi in lunghi, brucianti e travolgenti assoli in cui, adattando un celebre detto di T.S. Eliot, il viaggio conta quanto e forse più della meta. L’approccio alle canzoni è rispettoso ma inventivo: la melodia perfettamente riconoscibile, la struttura armonica e i tempi rielaborati con bella personalità.

Dave Alvin

Fra le architetture spagnoleggianti e un po’ gotiche di Groovin’ Is Easy (Electric Flag) e l’acido boogie rock di In My Own Dream (Butterfield Blues Band), sembra di tornare al Fillmore West o all’Avalon Ballroom di San Francisco (anche se le session hanno avuto luogo a Los Angeles) durante una di quelle serate danzanti degli anni 60 corroborate da purple hearts e trip a base di Lsd. La melodia sgusciante e sinuosa di Sally Go Round The Roses – unico successo datato 1963 delle Jaynettes, quartetto femminile afroamericano proveniente dal Bronx – è un’altra scelta azzeccata, un brano con cui si sono misurati la Slick (pre Jefferson Airplane, ai tempi della Great Society) e Tim Buckley, così come i Pentangle, Richard Anthony e Nana Moskouri da questa parte dell’Atlantico: anche in questo caso percussioni e strumenti a corde vagano in libertà prima di tornare al tema principale in puro spirito jazzistico.

In Why Not Your Baby, singolo country rock pubblicato nel 1968 da Dillard & Clark (il poeta tormentato e 1° frontman dei Byrds) Immerglück si cimenta con harmonium e mellotron; in A Little Bit Of Rain di Fred Neil, il folk rock si espande oltre i suoi confini naturali: sono i momenti più legati al formato canzone mentre Tall Grass, l’unico pezzo originale firmato da Alvin e Sykes e introdotto da un arpeggio sognante, consente ai Third Mind di alternare rarefazioni e pieni sonori e di cavalcare onde impetuose come quelle del Pacifico calandosi perfettamente in una bolla spaziotemporale che ricrea un microcosmo sonoro e culturale perduto. Senza alimentare nostalgie fini a se stesse, ma usando schegge del passato per rinnovare il linguaggio contemporaneo.

The Third Mind, il libro scritto da William S. Burroughs e Brion Gysin

Pochi di noi, consapevoli delle sue solide radici folk e rockabilly, si sarebbero aspettati un’impresa del genere da Alvin, personalità autorevole dell’Americana tuffatasi con entusiasmo nella sfida di confezionare un omaggio a un’era pionieristica in cui, suggestionati da dottrine mistiche e da droghe “ricreazionali ”, da romanzi di fantascienza e dalla corsa alla conquista dello spazio, certi giovani musicisti si sentivano spinti a loro volta a esplorare nuovi mondi dentro e fuori di sé. I Third Mind hanno meno pretese filosofiche, pensano soprattutto a divertirsi e a trovare chiavi diverse per esprimere la propria personalità artistica.

Ha potenzialità commerciali? Verrà suonata alla radio? Il mondo desidera o ha bisogno di un disco come questo, in questo momento? Mi venga un accidenti se lo so ma comunque eccolo qui ”, scriveva il capobanda Dave presentando il debutto del suo gruppo. Non possiamo che sottoscrivere, immaginando che anche in epoca di revival psichedelico dischi così resteranno probabilmente destinati a pochi estimatori: rappresentano comunque un’immersione in un mondo magico e in un modo spontaneo di fare musica; una “pia fantasia musicale ” che è diventata una bella e appassionante realtà.