È successo lunedì 11 settembre a Toronto: i Talking Heads di nuovo insieme, 21 anni dopo la cerimonia d’introduzione nella Rock and Roll Hall of Fame festeggiata a Cleveland con una breve esibizione. Dopo i litigi, i veleni, i no ripetuti e ostinati di David Byrne e il ritratto poco edificante che di lui ha disegnato il batterista Chris Frantz nel suo libro Remain In Love rincarando la dose nelle interviste concesse insieme alla moglie Tina Weymouth (Jerry Harrison, intanto, provava inutilmente a proporsi come mediatore fra le parti rilanciando nel frattempo un Remain In Light Tour insieme al chitarrista Adrian Belew).

È successo – anche se stavolta non hanno suonato e di reunion del quartetto originale non si parla neanche lontanamente – in occasione di un evento particolare: la presentazione in anteprima al Toronto International Film Festival di una nuova edizione restaurata in 4K (grazie al recupero dei negativi originali) di Stop Making Sense, il film del 1984 diretto da Jonathan Demme che ora torna nelle sale (prima in Nord America, dal 29 settembre nel resto del mondo) con 2 brani in più, Cities e una medley fra Big Business e I Zimbra, inclusi anche nella colonna sonora su doppio vinile.

Al Q&A organizzato nella metropoli canadese e in cui sono stati intervistati da Spike Lee, 3 anni fa regista dell’American Utopia di Byrne, i 4 sono apparsi rilassati, sorridenti e finalmente in pace fra di loro, anche se hanno impiegato non più di 25 minuti per sbrigare la pratica. Accomunati dall’orgoglio per quello che lo stesso Lee ha definito il miglior film concerto di tutti i tempi (lo è per gli anni 80, come L’ultimo valzer di Martin Scorsese lo è per gli anni 70 e Monterey Pop per i 60), incluso dalla Library of Congress degli Stati Uniti nella National Film Registry che custodisce le pellicole americane considerate “culturalmente, storicamente o esteticamente significative ” e passato giustamente alla storia per le sue scelte estetiche oltre che per i suoi contenuti musicali.

Sono 2, in particolare, le scene rimaste nell’immaginario collettivo oltre che nella storia del cinema e della musica. Quella iniziale in cui, preceduto dalla sua ombra, un David Byrne spaesato, in completo grigio e dallo sguardo allucinato arriva da solo sul palco, poggia a terra la sua boombox (uno di quei grandi radioregistratori portatili che i ragazzi di colore appassionati di hip-hop si portavano a spalla per strada negli anni 80), la accende, fa partire una base ritmica preregistrata e si mette a cantare Psycho Killer accompagnato solo dalle pennate sferzanti della sua chitarra acustica abbandonandosi nel finale a una danza sghemba e asimmetrica in cui sembra sempre sul punto d’inciamparsi e di rovinare a terra. E poi, verso la fine del film, la sequenza in cui per Girlfriend Is Better (la canzone che nel testo contiene la frase “stop making sense ”) indossa il leggendario big suit : l’abito oversize e dalle spalle esagerate che lo fa assomigliare a un manichino con effetti grotteschi e surreali.

«Mi trovavo in Giappone», racconterà in seguito, «e venni a conoscenza del teatro tradizionale giapponese: Kabuki, Noh, Bunraku. Mentre mi chiedevo cosa indossare nel prossimo tour un amico stilista, Jurgen Lehl, commentò nella sua solita, bizzarra maniera ‘beh, David, tutto sul palco sembra più grande ’. Si riferiva al modo di porsi e di gesticolare, ma io applicai quell’idea all’abito di un uomo d’affari».

«La musica è una forma di espressione molto fisica e spesso il corpo la capisce prima della testa», ha osservato in un’altra occasione. «Per questo volevo che la mia testa apparisse più piccola, e il modo più semplice per farlo consisteva nell’ingrandire il mio corpo».

David Byrne in una sequenza del film concerto Stop Making Sense diretto da Jonathan Demme

Quando, nel dicembre del 1983, il compianto Jonathan Demme (1944-2017), che anni dopo avrebbe sbancato Hollywood e vinto premi a ripetizione con Il silenzio degli innocenti e Philadelphia (anticipati nel 1986 dal delizioso e molto rock and roll Qualcosa di travolgente), sistemò troupe e telecamere per riprendere una prova generale e 3 show del gruppo al Pantages Theater di Los Angeles, Byrne aveva già in mente un’idea precisa: dimostrare che «un concerto pop può diventare qualcosa di simile al teatro, nel senso che può essere visivamente e in un certo senso anche drammaturgicamente sofisticato pur se continui a seguirlo ballando». Nella sua semplice ma efficacissima sceneggiatura – David solo sul palco, e poi raggiunto via via da tutti gli altri: Weymouth, Frantz, Harrison, il percussionista Steven Scales, le coriste Ednah Holt e Lynn Mabry, il chitarrista Alex Weir e il tastierista Bernie Worrell – lo spettacolo ripercorre quasi cronologicamente le tappe dello sviluppo artistico dei Talking Heads documentando il loro passaggio dallo spigoloso art rock intellettuale degli esordi newyorkesi al CBGB al funk cosmopolita, influenzato da James Brown e dall’afrobeat di Fela Aníkúlápó Kuti, di album come Remain In Light e Speaking In Tongues, il disco più recente allora in promozione. Ma simboleggia anche il percorso evolutivo dell’essere umano che combatte il suo stato di nevrotico ed egoistico isolamento per cercare felicità e realizzazione nell’interazione con i suoi simili.

È ancora Byrne a spiegarlo: «In una cultura così incentrata sull’individuo, sul sé e sui diritti del singolo, scoprire un mondo parallelo la cui essenza riguarda il donare, il perdersi e l’arrendersi a qualcosa di più grande è un’esperienza straordinaria. A quel punto ti rendi conto che anche in questo consiste il nostro mondo: abbandonarsi a un’entità spirituale, a una comunità così come alla musica o alla danza e liberarsi di se stessi come individui. È una sensazione estatica e trascendente».

Quella che si prova alla visione e all’ascolto di Stop Making Sense: perché il sudore, l’eccitazione e il coinvolgimento, pur filtrati dallo schermo, sono palpabili ed è quasi impossibile non farsi travolgere dal ritmo e dalla ritualità tribale della performance, dalla sua progressione graduale e inesorabile che molto deve anche alle scelte registiche di Demme: nessun montaggio frenetico e niente stacchi improvvisi, per privilegiare invece il flusso delle immagini e del racconto; primi piani e campi lunghi che si soffermano sui singoli protagonisti, sulle loro interazioni e sul quadro d’insieme; musica ininterrotta dalle solite interviste e riprese effettuate dietro le quinte. L’obiettivo si focalizza subito su ciò che accade sul palco (comprese le attrezzature di scena e il lavoro solitamente invisibile di tecnici e roadies) evitando le consuete panoramiche fra il pubblico festante.

Chris Frantz, Tina Weymouth, Jerry Harrison e David Byrne al Toronto International Film Festival

Mentre Byrne e Weymouth interpretano Heaven, lo staff sul palco sta ancora sistemando strumenti, cavi, microfoni e la pedana della batteria di Frantz, inesauribile stantuffo ritmico che a partire dalla galoppante Thank You For Sendind Me An Angel detta il passo a tutta la band. In Found A Job arrivano Harrison e le chitarre elettriche; con Slippery People il buio sul palco, le percussioni di Scales e le 2 giovani e scatenate coriste in shorts, che con Byrne interpretano un balletto coreografato durante le prove. Non ci sono più Belew e Nona Hendryx, guest star del tour di Remain In Light, ma la band è comunque spettacolare, sempre più black nelle sonorità grazie a Scales, alla chitarra ritmica di Weir (negli anni 70 con i Brother Johnsons) e alle sibilanti tastiere elettroniche di Worrell, pilastro dei Parliament-Funkadelic che qui dialoga con il synth di Harrison in una versione di Burning Down The House capace di radere letteralmente al suolo il teatro.

Life During Wartime è esilarante, irresistibile e con un groove pazzesco; una performance atletica di Holt, Mabry e Byrne che corre come un podista lungo tutto il palco per poi sdraiarsi a terra o trasformarsi in un pupazzo disarticolato. In Making Flippy Floppy le chitarre elettriche sono 3, mentre Tina sfoggia una gonna corta e stivaletti; nel blues spettrale, parodistico e futuristico di Swamp le ombre nere dei musicisti si proiettano su uno sfondo rosso, che durante una galoppante What A Day It Was diventa nero creando un netto contrasto cromatico con le figure nitidamente illuminate dei performer. Oltre a essere una delle canzoni più amate e citate degli Heads, This Must Be The Place (Naive Melody) mette in scena 1 dei momenti più suggestivi dello show: una lampada da terra sistemata sul palco trasforma il set in un ambiente domestico affacciato su New York, prima che Byrne cominci a giocarci abbracciandola, facendola oscillare e acchiappandola al volo.

Poi, durante l’esecuzione della hit Once In A Lifetime, il frontman indossa occhiali da intellettuale nerd e ricomincia a muoversi a strappi vacillando come le certezze della vita borghese e benestante messe in dubbio dal protagonista della canzone. Esce di scena per il breve intermezzo rap-dance riservato ai Tom Tom Club della coppia Weymouth-Frantz (Genius Of Love) ma torna a condurre il gioco quando, su uno sfondo ora di colore blu e con i musicisti in controluce parte Take Me To The River di Al Green in una nerissima versione gospel funk lunga, ipnotica e magnetica con Scales ad arringare la platea nelle vesti dell’MC (Master of Ceremonies). Le luci in sala sono accese, ormai, e nella frenetica danza di Crosseyed And Painless prende corpo la catarsi finale fra ballo ed estasi. Il pubblico – uomini, donne, bambini – diventa finalmente protagonista e nessuno riesce a tenere a freno il corpo, le coriste scuotono le capigliature al vento e David chiama sul palco tutta la crew.

Demme ci aveva visto giusto quando, dopo avere presenziato qualche mese prima a un concerto dei Talking Heads all’Hollywood Bowl di Los Angeles, aveva concluso che assistere a un loro show era come «vedere un film che aspetta di essere girato» e si era deciso a lavorare «sulla folle collisione di suono e immagini, in un certo senso la forma più pura di fare cinema che esista». Collaborando e confrontandosi con Byrne, aveva ottenuto ciò che entrambi desideravano: un film destinato a chi il concerto non aveva avuto modo di viverlo di persona, capace di risucchiare lo spettatore nella performance e di renderlo partecipe ovunque si trovasse (è successo anche a Toronto, dove le persone in sala si sono alzate mettendosi a ballare nei corridoi). Pur continuando a esistere fino all’«orribile divorzio» (parole di David) del 1991 e pubblicando ancora 3 album, i Talking Heads non sarebbero più saliti insieme su un palco prima della breve esibizione del 2002. E non solo a causa dei loro ormai insanabili conflitti di personalità: avevano alzato l’asticella dello spettacolo rock, ha ricordato Harrison, e sapevano di non poter volare più in alto di così.