Se questo è l’ultimo tour di Peter Gabriel, 73 anni compiuti a febbraio, di certo non è una passeggiata sul viale della nostalgia. Domenica 21 maggio 2023, in un Mediolanum Forum pieno come un uovo a dispetto del prezzo esorbitante dei biglietti, il performer inglese ha replicato la scaletta di Cracovia e di Verona provocando di nuovo qualche mugugno sui social, più che tra il pubblico presente: poche hit, più di metà show assorbito da canzoni ascoltate solo nelle anteprime digitali di questi mesi o mai sentite da nessuno, prima della settimana scorsa.

Un po’ come tra fine 1974 e 1975, quando con i Genesis presentava dal vivo un doppio album nuovo e ancora poco digerito dai fan, The Lamb Lies Down On Broadway, lasciando pochissimo spazio al resto del repertorio. «C’è sempre uno scambio», aveva spiegato prima di intraprendere il lungo viaggio che tra questo mese e il prossimo ottobre lo porterà in giro prima in Europa e poi negli Stati Uniti. «La gente di solito vuole sentire ciò che già conosce e l’artista di solito vuole suonare cose nuove. Così, credo, si instaura una specie di baratto: dovete sopportare un certo numero di pezzi nuovi per arrivare ad ascoltare quelli vecchi».

courtesy of Live Nation Italia

Ed è esattamente quello che succede in questo lungo concerto suddiviso in 2 set : la scelta è radicale, coraggiosa, forse anche azzardata. Niente San Jacinto, niente Mercy Street. Non c’è Shock The Monkey e non c’è Games Without Frontiers. E anche i pezzi famosi sono un po’ diversi dal solito, grazie agli arrangiamenti studiati con la nuova, efficacissima band: sono in 9 sul palco, con gli archi e i fiati (l’esperienza orchestrale di Scratch My Back e di New Blood ha lasciato degli strascichi) ad aggiungere colori, timbri, dinamiche sconosciute. Ci sono i pilastri: lo “scultore ” di suoni e maestro della chitarra ritmica David Rhodes e un sempre monumentale Tony Levin, accolto da un boato quando si presenta con il suo contrabbasso minimal e hi-tech per iniziare in duo con la voce e la tastiera di Peter l’esecuzione di Washing Of The Water.

C’è il graditissimo ritorno di Manu Katché alla batteria, occhiali e Borsalino in testa, agile e poliritmico come lo ricordavamo, duttile e tentacolare come una piovra quando serve: soprattutto in Red Rain, una delle tante riprese (5) dal best seller So. C’è un vecchio partner di studio e (talvolta) di palco come Richard Evans, un eccellente rifinitore che passa dalla chitarra al mandolino e al flauto. C’è un tastierista, Don E, con gli occhiali, la capigliatura e il piglio da rapper che guida assieme alla sezione ritmica i momenti più funky: quando arriva il momento di Road To Joy, 1 degli inediti che suona un po’ come una versione aggiornata di Kiss That Frog, abbandona la seggiola, imbraccia una keytar (una di quelle tastiere portatili a forma di chitarra che tanto andavano di moda negli anni 80) e si presenta sul fronte del palco.

C’è un bravissimo, giovane ed entusiasta musicista dai tratti orientali, Josh Shpak, scoperto casualmente da un fonico di Gabriel mentre andava a fare visita a un vecchio amico, che con le dissonanze della sua tromba rende ancora più stridente Digging In The Dirt, mentre a inizio concerto il suo assolo alla Miles Davis colora di cool jazz una formidabile versione quasi unplugged e tribale di Growing Up eseguita dal gruppo in semicerchio davanti a un falò virtuale, evocando i tempi in cui la musica era la prima forma di comunicazione tra gli esseri umani. Ci sono il violino elegante e la bella voce di Marina Moore; e c’è soprattutto Ayanna Witter-Johnson, che cattura l’attenzione con la sua bellezza, l’eleganza, il glamour, il sorriso, il violoncello “modern classic ” e un’ugola d’oro. In Don’t Give Up, mentre canta salendo i gradini di una scala per incontrarsi con Gabriel in cima a un palco spezzato in 2 colori contrapposti, blu e rosso, ruba la scena e strappa applausi.

È una delle eleganti, spettacolari ma mai eccessive scenografie ideate dal canadese Robert Lepage, che con Gabriel aveva collaborato in passato agli ormai leggendari Secret World Tour e Growing Up Tour: un grande schermo circolare che cambia inclinazione e pannelli semoventi che proiettano le immagini delle opere artistiche associate alle nuove canzoni, contrasti cromatici, schizzi di colore che Peter disegna con una specie di stick, una galleria di sue espressioni buffe e distorte durante Digging In The Dirt, un grande occhio che segue i suoi movimenti sul palco e poi l’occhio di tutti i musicisti in primo piano in In Your Eyes (come in Eye-D, il libro della figlia Anna venduto al tavolo del merchandising), una bella casa con una grande libreria, i fagioli e gli asparagi che cuociono in padella mentre la nuova This Is Home dipana il suo lento groove.

Anche l’abbigliamento dei roadies (e degli addetti ai video, e del mixerista) richiama quelle antiche produzioni. Per risultare chiaramente visibili al pubblico e mostrare il lavoro che si svolge davanti, dietro e intorno al palco, indossano tutti una tuta arancione: come il lavavetri che prima del concerto pulisce e sposta le lancette del grande orologio scandendo il tempo che manca all’inizio dello show; come Gabriel stesso, quando sale da solo sul palco nascosto da un berretto. Legge un foglietto in italiano stentato e mal supportato sugli schermi dal traduttore vocale, scherza sull’Avatar show degli Abba e dice che anche lui ha mandato un Avatar a esibirsi: più vecchio di 20 anni, più pesante di 10 chili e calvo. Lui, il vero Peter, se la sta invece godendo su una spiaggia caraibica dove esibisce le fattezze di un dio greco (anzi, romano).

Quando il discorso si fa serio, si riconosce l’artista di sempre: un illuminista umanitario che crede nella scienza e nella tecnologia, nella compassione e nella solidarietà, nella comunicazione e nello scambio di input e output (i/o, il titolo della title track del nuovo album che chissà quando uscirà e con un refrain a presa rapida come quello di Downside-Up). Nel bisogno impellente d’intervenire per salvare il pianeta dal disastro ambientale, nella necessità di vivere esperienze e di cercare di conservarne memoria mentre corpo e cervello invecchiano (Playing For Time: «Nel tour precedente era un pezzo incompleto, ora l’ho finito»), nell’intelligenza artificiale che rappresenta un pericolo ma anche un’opportunità di evoluzione e di risoluzione di problemi atavici.

Sono i temi delle nuove canzoni, e la buona notizia – oltre alla buona tenuta vocale della voce, di QUELLA voce, che ogni tanto vacilla e abbassa la tonalità ma poi sfodera un falsetto e prolunga una nota da brividi – è che alcuni dei pezzi mai sentiti prima sono meglio di quelli ascoltati finora al sorgere di ogni luna piena (tra quelli il migliore resta probabilmente Four Kinds Of Horses, che ha il pathos delle cose migliori di Up). Per esempio l’accorata Love Can Heal, scritta di getto (di getto! Da Gabriel!) dopo l’assassinio della laburista britannica Jo Cox nel 2016; e che qui sfocia visivamente in un’esplosione di colore dopo le tenebre in bianco e nero di Darkness, Peter che si aggira per il palco con un fedora in testa mentre le rasoiate della musica sono taglienti come un vecchio pezzo dei Nine Inch Nails. Come Live And Let Live, chiusa da un coinvolgente crescendo gospel. O come And Still, un delicato e ipnotico acquarello dedicato alla madre, mentre la figura del padre è evocata subito dopo in What Lies Ahead dedicata «a tutti gli inventori», già proposta nel Back To Front Tour e reinterpretata qualche tempo fa anche da Paolo Fresu (a completare il quadro familiare, Gabriel ringrazia anche il figlio Isaac a cui ha rubato l’idea melodica del brano).

Tony Levin, Peter Gabriel, David Rhodes

Dopo tanti pezzi lenti e d’atmosfera (fra i pochi uptempo c’è Olive Tree, con una sfumatura di chitarra twang in stile spy story), alla fine dei 2 set Peter Gabriel concede finalmente i crowd pleasers, i pezzi più amati che il pubblico aspettava con ansia per alzarsi a cantare e a ballare illuminando l’arena con le torce degli smartphone: prima il sexy soul di Sledgehammer, poi una Big Time che accenna alla house music mentre Levin sfodera i suoi funk fingers. Infine, il canto liberatorio e luminoso di Solsbury Hill e di In Your Eyes (ancora la voce di Witter-Johnson protagonista) dove Gabriel, Levin e Rhodes rispolverano il vecchio numero dei passi di danza sincronizzati. Infine, inevitabile, Biko: dopo 2 ore e 40 minuti di musica esci dalla sala con il suono del tamburo di Katché nelle orecchie, negli occhi lo sguardo fiero dell’attivista anti apartheid sudafricano che ti fissa dallo schermo, in testa quella frase, “and the eyes of the world are watching now ”.

Sono le cose che Gabriel ci dice anche oggi con Panopticom e con The Court, gli altri pezzi che sono parte integrante del nuovo show: quando invita noi, gli occhi del mondo, a guardare e denunciare le violenze e i soprusi; a contrapporre la “piccola sorella ” della gente comune al grande fratello orwelliano; a contrappore l’utopia alla distopia; ad alzare la voce e il pugno in difesa della libertà e contro ogni discriminazione. Il 1980 come il 2023, il mondo in bilico tra orrore e speranza, la natura dell’uomo che non cambia, l’impegno civile, la fede nel futuro, il coraggio, l’empatia, la passione, il calore, l’entusiasmo di Peter Gabriel neppure.

1° Set

Washing Of The Water, Growing Up, Panopticom, Four Kinds Of Horses, i/o, Digging In The Dirt, Playing For Time, Olive Tree, This Is Home, Sledgehammer.

2° Set

Darkness, Love Can Heal, Road To Joy, Don’t Give Up, The Court, Red Rain, And Still, What Lies Ahead, Big Time, Live And Let Live, Solsbury Hill.

Bis (1): In Your Eyes
Bis (2): Biko