Al di là degli appassionati del genere, non solo jazz ma nell’accezione be-bop, non saprei chi al giorno d’oggi possa ricordarsi di questo nome. La sua leggenda con ogni probabilità prosegue, ma non sarebbe una brutta cosa se Charlie Parker venisse riproposto al di fuori dei circuiti del Blue Note e di altri jazz club.
Anni fa avevo il sospetto, magari fondato, che gran parte della sua fama fosse dovuta al fatto di essere il tipico caso di beautiful loser. Forse il più celebre angelo caduto del jazz quando di angeli caduti, fra il 1950 e il 1970, se ne potevano contare tanti: da Chet Baker, irrimediabile drogato; alla morte misteriosa di Albert Ayler; dal decesso quasi improvviso di John Coltrane, alla salute di colpo compromessa di Eric Dolphy. Considerando poi che il jazz ha goduto di un notevole seguito fra gli anni 60 e 70, in particolare in Italia, grazie a un grande critico musicale come Arrigo Polillo e a illustri festival fra cui Umbria Jazz, Bergamo e Pescara, era lecito sospettare che le vite “maledette” dei jazzisti scomparsi e di quelli “al limite ” come Miles Davis, andassero per così dire a braccetto con le esistenze altrettanto “maledette” del rock. E che la luce sinistra di queste ultime illuminasse quella dei musicisti jazz. Credo fosse così, almeno in parte. Ma sono quasi certo che nei primi anni 70 i dischi jazz più venduti fossero quelli di Coltrane, morto nel 1967 a 41 anni; e dello stesso Parker, deceduto ancora più giovane, 35enne, nel 1955.
Charlie Parker e Miles Davis
© William P Gottlieb, courtesy Music Division, Library of Congress
Proprio per il “maledettismo” che gli appiccicarono addosso, di lui si ricordano soprattutto le dipendenze da alcol e droga dimenticando 2 particolari. Il primo è storico: si deve cioè a lui e a Dizzy Gillespie la creazione del be-bop, autentica rivoluzione che ha riportato il jazz sotto la leadership dei musicisti neri e delle formazioni di pochi elementi dopo lo swing, che poteva essere interpretato sia da musicisti bianchi sia neri, ma era anzitutto l’espressione delle Big Band. Secondo particolare, la sua musica non tradisce minimamente il dramma umano di alcolista e di tossico, tant’è che c’era un evidente contrasto fra la personalità di un uomo debole, vizioso, psichicamente instabile e il suo jazz. Anzitutto dal punto di vista tecnico: anche a un profano, infatti, appare evidente l’assoluta padronanza del sax ascoltando 1 brano come Au Privave, composto nel 1951. Avendo ovviamente a disposizione le registrazioni, non ci è dato sapere del suo stato d’animo al momento dell’incisione, ma è altresì noto che erano più le volte che Parker era instabile piuttosto che mentalmente lucido.
Qualcuno l’aveva persino definito “luciferino “; e probabilmente possiamo considerare diabolica (per modo dire) la capacità di sdoppiamento, che anche nelle peggiori condizioni gli consentiva di eseguire comunque musica ad altissimo livello. E anche quando la sua psiche era al limite se non oltre, il suono si faceva magari più straziante ma non perdeva un grammo della sua pulizia. Al riguardo, vi consiglio di ascoltare una versione di Lover Man. Dopo essersi presentato in sala d’incisione in condizioni pietose, pur mancando il primo ingresso del sax sul giro del pianoforte, Charlie Parker fu in grado di estrarne note drammatiche, pervase da una struggente malinconia.
In linea di massima, la sua musica era spesso basata sulla scala blues ma sapeva reinterpretarla, sapeva giocarci sopra, dimostrava una volontà di arricchimento dei temi che nascevano dalle sue grandissime doti improvvisative. Per dimostrarlo, vi basti prestare ascolto a quel capolavoro che è KC Blues. Ma questa sua indiscutibile ricchezza musicale è data inoltre da una particolarità rara: fra i jazzisti neri, Parker amava la musica classica; ragion per cui, la sua cultura musicale era di gran lunga superiore a quella degli altri boppers. È possibile, perciò, che al netto della sua tragica leggenda umana, anche se fosse invecchiato sarebbe rimasto ugualmente 1 dei più grandi e rivoluzionari jazzisti di sempre.