Nel 1977 i Sex Pistols assaltano la Bastiglia del rock establishment. Nel 1978 Keith Moon si spegne dopo 32 anni di fuochi d’artificio e di follia. Nel 1979, 11 persone muoiono a un concerto degli Who a Cincinnati. Nel 1980 Pete Townshend, naufrago in un mare agitato, risponde a questa raffica di tempeste con 1 album solista, Empty Glass. Il suo migliore in assoluto e anche il 1°, in un certo senso, dal momento che i dischi registrati in omaggio alla sua guida spirituale, Meher Baba, avevano avuto una circolazione molto limitata; che Who Came First (1972) era sostanzialmente una raccolta di provini e che Rough Mix (1977) era una collaborazione con Ronnie Lane.

In quel momento, Pete ha 34 anni ed è una rock star in crisi di mezza età. Dubbioso sul suo ruolo e sul suo futuro artistico. Con grossi problemi in famiglia. E alcolizzato cronico da almeno 3 anni: dai tempi della versione cinematografica di Tommy. Nello scatto di copertina realizzato da Bob Carlos Clarke (“Simile nello stile a Helmut Newton, ma più bravo“) ci appare come un santo bevitore in giacca e cravatta, con un’aureola sopra la testa e i diavoli tentatori di fronte e a fianco, una bottiglia e 2 ragazze sexy che gli si appoggiano lascivamente sulle spalle. Nelle note dedica il disco alla moglie Karen, ringrazia i produttori del cognac Remy Martin per avergli salvato la vita aumentando i prezzi del liquore e riporta una frase del suo maestro (“Non desiderare null’altro che l’assenza del desiderio, non sperare nulla se non di elevarti al di sopra delle speranze, non volere nulla e avrai tutto”). È un seeker che da sempre, nel mondo fatuo e materialista del rock, ricerca il riscatto, la verità e l’illuminazione: «Un Kierkegaard con una Gretsch a tracolla» (lo definirà cosi lo scrittore e cantautore tedesco Heinz Rudolf Kunze) che riempie le sue canzoni di strati, di significati, di riflessioni profonde, di autoanalisi e di messaggi non sempre decifrabili a prima vista.

Il titolo dell’album e della title track ce lo farebbe immaginare in vena di confessioni durante un’ipotetica riunione degli alcolisti anonimi, ma nasconde invece una metafora mistico-religiosa: reduce dalla lettura del Libro dell’Ecclesiaste, Townshend ricava dalla poesia sufi dei poeti persiani Hafiz e Rumi il concetto che l’uomo sia pronto a ricevere il vino dell’amore supremo solo dopo avere svuotato il bicchiere della sua esistenza; e sviluppa la sua scrittura su un doppio binario, esponendo i suoi vizi, i suoi crucci e le sue insicurezze mentre aspira a una dimensione superiore. È così che Empty Glass e A Little Is Enough (una marcia trionfale con il vento in faccia in cui Townshend dichiara il suo amore per la moglie e invita alla morigeratezza seguendo gli insegnamenti del suo guru) finiscono per suonare contemporaneamente ascetiche e sanguigne, rabbiose e serafiche, traboccanti di passione e colme di saggezza.

Townshend canta di amore terreno e di amore divino, incrociando melodie impetuose e power chords come ai tempi di Quadrophenia. Ai Wessex Sound di Londra, nel suo home studio e poi agli AIR di George Martin, si affida alla coppia che ha dato forma a Never Mind The Bollocks: il fonico Bill Price e il produttore Chris Thomas, come lui originario del quartiere di Ealing, a quei tempi impegnato anche con i Pretenders e abilissimo nell’irrobustire il suono come nell’estrargli dall’ugola la voce migliore, acuta e delicata come avevamo imparato a conoscerla ma ora anche ricca di sfumature, coraggio e vigore insospettato.

In accordo agli umori musicali dell’epoca, Thomas lo convince a registrare 1 disco uptempo, energico, ritmico e con poco spazio per le ballate. È una scelta giusta anche se, riascoltate oggi, quelle ventate di synth e quelle batterie elettroniche lasciano a volte una patina un po’ démodé sulla preziosa mobilia. Lo si sente soprattutto in Let My Love Open The Door, il singolo dichiaratamente pop e dal testo insolitamente spensierato che arriverà nella Top Ten delle classifiche americane di Billboard e resta tuttora la più grande hit solista del musicista inglese. Merito di un refrain che entra in testa, di quegli accattivanti coretti e proprio di quei suoni alla moda, elettronici e gorgoglianti, che gli aprono le porte delle radio.

Gli Who, che oltre a una versione di Empty Glass avevano registrato ai tempi di Who Are You anche l’accattivante filastrocca di Keep On Working Un pezzo che cerca di essere una canzone dei Kinks ma che non funziona», è l’ingeneroso giudizio emesso dall’autore), non avrebbero mai potuto suonarla, anche se in Empty Glass il sostituto di Moon, Kenney Jones, si alterna alla batteria con Simon Phillips (il più presente alle session), Mark Brzezicki e James Asher, mentre Tony Butler rimpiazza John Entwistle al basso ed entrano in gioco amici intimi come “RabbitBundrick (è lui a occuparsi delle tastiere «suonate come si deve» mentre Pete armeggia con le sue chitarre, il suo pianoforte e i suoi sintetizzatori) e Raphael Rudd, un altro seguace di Meher Baba a cui è affidato l’arrangiamento di ottoni piazzato in coda a Rough Boys, il 1° pezzo del disco che irrompe dai solchi come un uragano. Decisamente meno fortunato come singolo, travolgente e rumoroso, è un classico istantaneo in cui la chitarra synth di Pete suona «come una trentina di chitarre alla volta» e l’autore omaggia le figlie Emma e Minta oltre ai Sex Pistols, celebrando in 4 minuti i suoi ricordi adolescenziali, la gagliardìa della gioventù, il vecchio spirito stradaiolo e rissoso dei mod, il mondo gay che rimette in discussione le identità sessuali e il movimento punk da cui è attratto e spaventato (anche se proprio Johnny Rotten e compagni avevano indicato gli Who tra i loro fari guida).

Erutta dai solchi con la forza di un vulcano ma non è furiosa e incazzata quanto Jools And Jim, la sua Avvelenata che dietro l’ironica assonanza con il titolo di 1 dei film più famosi di François Truffaut cela un’invettiva rabbiosa nei confronti di 2 giornalisti musicali dell’NME, Julie Burchill e Tony Parsons, colpevoli di avere commentato indelicatamente la dipartita di Keith Moon e di averne travisato la natura in un’intervista rilasciata a un giornale (ma a cui offre alla fine anche un ramoscello d’ulivo, convinto che la loro querelle si possa risolvere davanti a un bicchiere di vino). Sono i 2 pezzi più muscolosi e “alla Who” del disco, posti in apertura e in chiusura di una prima facciata che con I Am An Animal, And I Moved e Let My Love Open The Door abbassa i toni senza rinunciare al marchio di fabbrica di Townshend: la sua straordinaria capacità di giocare con le dinamiche e i cambi di tempo e tonalità, accoppiando melodie malinconiche e di bella calligrafia all’energia dirompente e viscerale del miglior rock and roll.

La prima è una bellissima ballata (l’unica del disco) in cui compare anche la chitarra acustica, il ritratto senza veli di un uomo dalle pulsioni autodistruttive che si incammina su un percorso di riscatto spirituale; la seconda, con un fraseggio pianistico in delay vorticoso e circolare («come un Semprini ad alta velocità»), e un basso pulsante che creano un’atmosfera straordinariamente avvolgente, ha un testo enigmatico ancora una volta aperto a molteplici interpretazioni (un’altra professione di devozione religiosa, un coming out o che altro?), tanto da lasciare interdetta Bette Midler a cui era inizialmente destinata.

A confronto Cat’s In The Cupboard, che Townshend aveva scritto appositamente per un concerto al Rainbow di Londra organizzato da Rock Against Racism a seguito dei tumulti razziali esplosi nel Sud dell’Inghilterra nel 1979, è molto più semplice, diretta e trasparente: un incitamento alla libertà di espressione e di comportamento che si traduce in un robusto rock blues infiammato dall’armonica di Pete Hope-Evans (Medicine Head). Un’esplosione di fisicità che diventa ancora più esplicita nella conclusiva Gonna Get Ya, «musica da ascoltare mentre si passeggia per il parco o mentre si guida l’automobile»: dopo tanta sostanza filosofica e intellettuale, la chiosa è affidata a un funk rock dal sound testosteronico registrato in una sola take che nel testo a botta e risposta gioca con la fonetica delle parole e nel break pianistico centrale offre a Bundrick l’occasione di esprimere la sua passione per Keith Jarrett. «Non ha nessun significato particolare», spiega Pete, come a ricordare che dopo tutto il rock and roll è destinato a nutrire il corpo più che la mente anche se lui, fin dai tempi di My Generation, ha provato a farne un linguaggio adulto, significativo e consapevole.

Il confronto con il materiale che proporrà agli Who l’anno dopo per Face Dances (You Better You Bet esclusa) è quasi impietoso: una campana a morto anticipata per la prima fase di vita del gruppo, perché intanto il chitarrista s’era stancato di mulinare le braccia sul palco, aveva un nuovo contratto da solista con la Atco da onorare, un bel po’ di casini personali da risolvere e un mazzo di canzoni che nessun altro, neppure Roger Daltrey, avrebbe potuto cantare. Solo lui poteva portare quella croce prima di resuscitare.

Pete Townshend, Empty Glass (1980, Atco)