Era arrivato a New York City dalla Costa Est degli Stati Uniti e dalla provincia (Wilmington, Delaware). Subiva il fascino dei poeti maudit francesi prima ancora di averli letti. Aveva amato la musica di Richard Wagner, per poi invaghirsi di John Coltrane e del free jazz di Albert Ayler; e capire a 16 anni cosa avrebbe voluto diventare in futuro dopo avere ascoltato gli Yardbirds, i Byrds e Highway 61 Revisited di Bob Dylan, con quella chitarra elettrica puntuta e tagliente suonata da Mike Bloomfield.

Un anticonformista intellettuale come Tom Miller, in arte Tom Verlaine non poteva trovare rifugio, a metà anni 70, che al CBGB, lo scalcinato locale sulla malfamata Bowery in cui si facevano le ossa assieme alla sua band i Ramones, i Talking Heads, i Blondie di Debbie Harry e Patti Smith, amica intima, occasionale compagna e confidente di una vita. Con un batterista anche lui appassionato di jazz, Billy Ficca; un bassista solido e concreto come Fred Smith che per seguirlo aveva lasciato i Blondie; e un altro biondo chitarrista, Richard Lloyd, nato a Pittsburgh, cresciuto nel Greenwich Village e subentrato al posto di Richard Meyers in arte Richard Hell (2 galli in 1 pollaio non potevano durare a lungo, e il divorzio fu tutt’altro che amichevole), era pronto finalmente al grande passo, l’album di debutto, dopo che i loro concerti e il 45 giri Little Johnny Jewel, registrato su un Teac 4 piste in un loft di Midtown e uscito sull’etichetta creata apposta dal loro manager, avevano sollevato un piccolo polverone.

Tom Verlaine
(1949-2023)

Il successo mainstream che attendeva i colleghi cresciuti nel club di Hilly Crystal, si capirà quasi subito, non è roba per loro. Troppo intransigenti, compassati, distaccati e taciturniMi piace pensarmi invisibile», dirà di se stesso Verlaine anni dopo) per giocare al gioco del music business quando un sound appetibile e un’immagine intrigante diventavano essenziali (unica concessione allo stile del periodo, la spettrale copertina realizzata da Robert Mapplethorpe per intercessione della Smith). Se gli altri sprizzano adrenalina, sputano, si agitano e fanno casino, i Television abbassano il ritmo su frequenze ipnotiche e si concentrano sull’esecuzione dei pezzi, lasciando persino spazio a lunghi assoli di chitarra che sconfessano il dogma della canzone da 2/3 minuti di durata.

Sembrerebbe una blasfemìa, una sfida ai canoni estetici del punk newyorkese. Ma l’intensità bruciante delle loro performance; quel senso palpabile del “qui e adesso” e dell’“ora o mai più”; la rabbia trattenuta e l’inquietudine esistenziale che sprigionano dalla loro musica, rapiscono il giovane pubblico che accorre a vederli dal vivo. A differenza di molti contemporanei hanno imparato a suonare in modo corretto a forza di prove ossessive, mentre le case discografiche fanno a gara per scritturarli (in momenti diversi entrano in gioco la Island inglese, la Sire che si è già assicurata Blondie e Talking Heads, la RCA convinta a provarci da Patti Smith e la Atlantic, il cui leggendario presidente Ahmet Ertegun li liquida dopo un provino sostenendo che la loro non è musica di questa Terra: «Un gran complimento», commenterà Lloyd).

La spunta la Elektra, gloriosa etichetta dei Doors e dei Love, che si assicura i diritti sull’album Marquee Moon, distribuito nei negozi a partire dall’8 febbraio del 1977. Non sarà un grande affare dal punto di vista economico, dato che l’Lp venderà inizialmente meno di 80.000 copie in patria e non si affaccerà mai nelle classifiche americane (molto meglio in Inghilterra, N°28, dopo che il New Musical Express gli dedica un’entusiastica recensione a doppia pagina firmata dal celebre e autorevole Nick Kent). La casa discografica di Jac Holzman si assicura però in catalogo 1 pezzo di storia del rock che ancora oggi suona come una splendida anomalìa. Diverso, inafferrabile, moderno, misterioso, stregherà giovani musicisti come The Edge e Stephen Malkmus dei Pavement, creando un vero e proprio culto e innescando decine di tentativi di imitazione sulla scena indie degli anni a venire. Erano davvero strani, i Television: newyorkesi fino al midollo nello stile e nell’anima, guardavano anche loro al modello universale e minimalista dei Velvet Underground, condito di sapori garage e folk-rock, di una voglia di improvvisazione e di libertà espressiva mutuata dal jazz e dai quei fitti dialoghi tra 2 chitarre Fender pungenti e incisive, versione (post) punk a 10 anni di distanza di quel che i Quicksilver Messenger Service avevano fatto a San Francisco, ispirata però più ai movimenti situazionisti del primo ‘900 che alla California dei Sixties.

Non c’è certo l’utopìa della Summer of Love ma piuttosto un nichilismo molto contemporaneo in See No Evil, la canzone che apre l’album con una ritmica penetrante, un riff serpentino e concentrico, voce e controcanto e un assolo penetrante. Verlaine, secondo Rolling Stone, canta come “una gallina intelligente che sta per essere strangolata”; e la sua intonazione nevrotica è molto in sintonia con il tempo e il luogo in cui si esprime. Il suono, però, non assomiglia a nulla di ciò che si sente in giro: è lineare, asciutto e pulito, secondo le precise indicazioni fornite da Tom, di poche parole ma intransigente e dispotico; al grande fonico e produttore inglese Andy Johns che aveva lavorato con i Led Zeppelin e i Rolling Stones (poco prima Verlaine aveva ascoltato con attenzione Goat’s Head Soup). Dunque: niente batterie tonanti da gruppo hard rock, niente riverbero, il minimo di compressione, pochi effetti e sovraincisioni ridotte al minimo sindacale. «Ti abbiamo ingaggiato perché hai realizzato tutti quei grandi album chitarristici e perché come fonico sei impareggiabile», gli spiega il leader; e in 3 settimane circa di registrazioni e missaggi il lavoro giunge al termine.

Smith, al basso, è il loro Bill Wyman, il centro di gravità e il bilanciere. Ficca tiene il tempo ma si prende anche delle libertà occupando molto spazio sonoro («Come Mitch Mitchell nella Experience di Jimi Hendrix», spiega l’altra metà della sezione ritmica). Tom e Lloyd, intanto, si comportano come i fiatisti di un quartetto be bop, anche se suonano lo stesso strumento. Fondono e contrappongono le loro 6 corde in una danza ipnotica, sfoggiando 2 stili diversi: anarchico, intuitivo e spontaneo quello di Verlaine, più disciplinato e strutturato quello di Lloyd che spesso scrive e prepara in anticipo i suoi assoli ricorrendo più volentieri di Tom a sovraincisioni che ne ne amplificano l’effetto.

Sono nervosi, acidi e spigolosi soprattutto in pezzi come Friction, un’ode alla sempiterna gioventù promessa dal rock and roll; capaci di arpeggiare su tempi spezzati e inusuali creando un senso di vertigine (in Elevation la doppia chitarra di Lloyd sembra vagare nello spazio grazie a un microfono che Johns lancia in giro per lo studio come un lazo mentre la voce di Verlaine viene distorta da un harmonizer); creare cascate di note in titoli come Venus, dove Tom immagina che «due chitarre possano sostituire la mano destra e la sinistra su un pianoforte». La delicata Guiding Light (cui Verlaine aggiunge tocchi essenziali di piano) e Prove It, un pezzo forte del disco che uscirà anche su 45 giri e che rispolvera fraseggi da vecchio ballabile, hanno un’atmosfera anni 50, in aperto e voluto contrasto con le note attorcigliate, il pathos drammatico e la teatralità della conclusiva Torn Curtain.

In un disco senza pause, all killer no filler, il knock out lo assesta l’ermetica title track, aperta da un inconfondibile riff in staccato che ogni fan dei Television riconosce all’istante provando un brivido lungo la schiena. Verlaine è sempre stato molto evasivo a proposito del suo significato, Lloyd ne ha parlato come di una mini sinfonia costruita con cura. Il suo ritmo a incastro e la sua sconnessa evoluzione melodica ti tengono inchiodato per 9 minuti e 58 secondi (10 minuti e 40 nella versione successivamente stampata su Cd) soprattutto quando, prima della ripresa finale del tema principale, la chitarra di Tom si scatena in una jam che qualcuno ha paragonato alle improvvisazioni dei Grateful Dead ma che il musicista e scrittore newyorkese Alan Licht ha associato, molto più opportunamente, al libero arrangiamento modale che i Fairport Convention applicarono nel 1969 al traditional britannico A Sailor’s Life (che pure il quartetto all’epoca non conosceva).

È un brano che sintetizza una carriera e una filosofia musicale, come Little Johnny Jewel sdoppiato all’epoca su 2 facciate di un 45 giri anche se è molto meglio ascoltarselo tutto d’un fiato su Lp, su Cd o in streaming per non interrompere il flusso e la magia. Aveva davvero ragione il vecchio Ertegun: questa era musica che allora sembrava arrivare da altrove. Con i Television il punk negava e superava se stesso, Verlaine e Lloyd diventavano i guitar heroes di una generazione convinta fino a poco tempo prima di non averne bisogno. Solo che non usavano i loro strumenti per assecondare il loro ego o per esibirsi in virtuosismi; piuttosto per aprire una strada nuova seguita da innumerevoli band dagli anni 80 ad oggi. Se tra alti e bassi la chitarra elettrica ha conservato un ruolo essenziale nella musica contemporanea, parte del merito va riconosciuto a loro e a Marquee Moon.

Television, Marque Moon (1977, Elektra)