Il cuore musicale di New York sta perdendo colpi. La pandemìa ha messo in ginocchio la metropoli americana, rischiando di darle il colpo di grazia. Gran parte dei jazz club ha chiuso i battenti e di conseguenza i musicisti faticano a trovare ingaggi e a esprimere la loro creatività. La situazione, però, sembra tornare faticosamente alla normalità; e ancora una volta è una delle etichette discografiche storiche – quella Blue Note fondata nel 1939 da Alfred Lion e Frank Wolff, profughi tedeschi sfuggiti al Nazismo ed emigrati in America per amore del jazz – a testimoniare il “Nuovo Rinascimento“.

Don Was, già produttore e ora a capo della label, ha avuto la lungimiranza di mettere sotto contratto alcuni fra i più bei talenti in circolazione assicurandosi le prestazioni dell’élite di una nuova generazione di musicisti che sta rivitalizzando il lessico jazzistico. Blue Note, per tradizione, ha sempre documentato il meglio del momento storico in cui i suoi artisti si esprimevano: dal bop di Thelonius Monk e Bud Powell, all’hard bop di Art Blakey, Lee Morgan e Horace Silver; dalle prime istanze free di Cecil Taylor e Ornette Coleman fino ai giorni nostri, l’etichetta ha sempre puntato sui nomi chiave che hanno portato innovazioni e rivoluzioni nel jazz. E anche oggi può vantarsi di essere in prima fila nel realizzare opere che lasceranno un segno e apriranno nuove vie, grazie a una scuderia di giovani talenti che hanno imparato la grande lezione dei Maestri per poi contestualizzarla al momento attuale, con un orecchio rivolto alle possibili evoluzioni di una musica che per definizione è in costante, ininterrotto movimento.

Don Was, produttore discografico e Presidente della Blue Note Records

Ancient to the future“, il motto programmatico della Association for the Advancement of Creative Musicians di Chicago, ben si sposa con le nuove proposte della Blue Note: musicisti afroamericani impegnati a contrastare il razzismo grazie a movimenti come Black Lives Matter o BAM (Black American Music) che qui in Europa non sono ancora stati del tutto compresi. Molti di loro assumono posizioni nette e decise, sottolineando come in America i neri percepiscano la vita su un doppio livello di interpretazione: il divertimento e la protesta.

Nel jazz di questi young lions, ci si riappropria della serietà e della coerenza. Quando prende le distanze dalla parola “jazz“, il trombettista della BAM Nicholas Payton va ben oltre una questione di mera terminologia. Oggi il problema dell’identità razziale viene vissuto in modo del tutto diverso da come veniva interpretato negli anni 60. Oggi ci sono i social media, Internet, le tv; e il consenso passa attraverso l’utilizzo che ognuno fa di questi mezzi. Non c’è alcun razzismo al contrario, sia chiaro. Si è spesso portati a identificare certe manifestazioni con qualcosa di non inclusivo che abbia a che fare col revanscismo, ma non è ciò che intende la Black American Music.

Lo scrittore Colson Whitehead, autore del romanzo Harlem Shuffle

Noi europei fatichiamo a comprendere, per vari motivi e per evidenti limiti culturali, la posizione dei neri. Da noi il razzismo è solo una pallida, minuscola rappresentazione di ciò che accade ogni giorno negli Stati Uniti nella vita di un afroamericano, seppur di cultura e ceto sociale elevati. C’è ancora parecchia ignoranza, se non supponenza, a non voler capire che la civiltà occidentale non è la migliore in assoluto e che la civiltà africana, ad esempio, è talmente vasta e sconosciuta che non possiamo più permetterci di sottovalutarla. La violenza dei bianchi sui neri americani è vecchia di almeno 400 anni. E forse, oggi, sarebbe il caso di ascoltare le loro rivendicazioni senza ridicolizzare le loro istanze.

Il rinnovato orgoglio nero sta producendo opere di livello straordinariamente alto. Non mi riferisco solo alla musica: pensiamo ad esempio a romanzieri quali Ta Neishi Coates o al sommo Colson Whitehead. I protagonisti di questo rinnovamento culturale, musicale e contemporaneo sono Makaya McCraven, Joel Ross, Gerald Clayton, Immanuel Wilkins, Ambrose Akinmusire e Robert Glasper.

Makaya McCraven

Batterista, figlio del ben noto Steve McCraven, drummer per decenni di Archie Shepp, Makaya McCraven è cresciuto guardando e studiando il padre, stando sulle ginocchia di “zio Archie” e assimilando da loro tutte le cognizioni possibili. Oltre alla grande tradizione jazz, Makaya si è sempre interessato a tutta la black music: dal funk al rap, dall’hip hop al soul. La sua proposta è una sapiente miscela di tutti questi stili, filtrati dalla geniale visione di una panmusica nera che non conosce confini ma confluisce in un unicum fatto di tensione ritmica coinvolgente e totalizzante su cui si innervano assoli di una bellezza entusiasmante. Da dietro la batteria, dirige l’ensemble verso l’esposizione di una musica senza tempo. Trae ispirazione dalla grande lezione dei maestri Blue Note del passato e la riporta ai giorni nostri attraverso un sapiente uso dei campionamenti e dell’elettronica.

Il suo ultimo lavoro discografico, Deciphering The Message (decifrare il messaggio), è un atto d’amore vero, sincero e profondo nei confronti della grande tradizione, ma pensando al presente e al futuro. Non è, come molti potrebbero pensare, un modo ruffiano per ottenere consenso anche da chi preferisce il passato, ma piuttosto una dichiarazione programmatica: «Provengo da quella musica e da quella cultura. L’hard bop di casa Blue Note è l’humus nel quale è cresciuta la mia proposta artistica», spiega McCraven. «Ovviamente ho utilizzato l’elettronica e i campionamenti per miscelare al meglio delle mie possibilità la tradizione con le mie idee rivoluzionarie».

Ne consegue una nuova musica che affonda le proprie radici nel grande jazz ma che non disdegna di rifarsi ai gloriosi giorni di GURU e di Jazzmatazz, quando hip hop e jazz si fusero per la prima volta assieme in un magico abbraccio: mix che ancora oggi ispira opere di assoluto valore testimoniando come l’hip hop sia ciò che il bop è stato per gli hipsters negli anni 50. Deciphering The Message si avvale inoltre della presenza di talenti quali il vibrafonista Joel Ross, il chitarrista Jeff Parker, il trombettista Marquis Hill e il bassista Junius Paul.

Joel Ross, appunto, è il nome nuovo del vibrafono. Dai tempi di Bobby Hutcherson non emergeva sulla scena jazzistica un vibrafonista capace di rinnovare il linguaggio dello strumento e proporre una musica accattivante, mai banale, che lascerà un segno indelebile nel jazz. Dotato di uno stile fluido che ingloba la lezione del passato unitamente alle più radicali espressioni della nuova scena afroamericana, a differenza di molti suoi colleghi privilegia la dimensione acustica: quindi non utilizza alcunchè di elettronico e ciò lo rende ancor più interessante e originale. Dal suo 1° album, Kingmaker del 2019, Joel si è imposto all’attenzione della critica per la sua visione a 360° del lessico jazzistico. Nato come batterista, ha studiato percussione per poi specializzarsi nella difficile arte del vibrafono. L’esperienza con una banda musicale ecclesiastica si è rivelata fondamentale per comprendere appieno la storia e la tradizione, inglobando nella sua proposta echi di spiritual, gospel, musica religiosa e sfiorando a volte l’atonalità e la musica classica.

Joel Ross

La padronanza dello strumento lo porta poi a essere un virtuoso, che però non si esibisce in sortite spettacolari per strappare l’applauso, bensì portare a compimento un’idea musicale basata sull’empatia collettiva con i membri della sua band: in particolare con il sassofonista Immanuel Wilkins, alter ego e partner privilegiato di cui Ornette Coleman oggi andrebbe fiero. Capace di passare da sortite intimiste e delicatissime a esplosioni ritmiche il cui merito va condiviso con il batterista Jeremy Dutton, autore di trame ritmiche dense e spigolose, Ross firma 3 album per la Blue Note, uno più interessante dell’altro. Ed è l’interplay con gli altri musicisti a stupire in questi suoi lavori, specie nel 2°, Who Are You?, dove pare voler riproporre lo stile ubiquo e modale di Herbie Hancock, trasponendolo sulle lamelle del suo vibrafono.

Da un 21enne non ti aspetteresti una simile maturità, ma Joel Ross ha tutte le carte in regola per rimanere ai vertici del jazz per molti anni. La sua creatività esuberante ha il suo apice nel 3° album da poco pubblicato, The Parable Of The Poet, con brani che iniziano melodicamente e accennano a prendere direzioni diverse, per poi confluire in una musica che sa spingersi verso sonorità aspre e dissonanti, senza mai perdere di vista l’importanza della melodia e dell’armonia.