Riascoltato oggi, 40 anni dopo e con il senno di poi, Combat Rock suona come un disco da ultima spiaggia, da ultimo giro di pista. Rock militante, vibrante e un po’ sconclusionato, visibilmente imperfetto ma capace di fotografare la realtà (quella di allora e, in parte, anche quella di oggi). Eppure, quando uscì nei negozi il 14 maggio del 1982, i Clash sembravano tutto meno che una band pronta a consegnare alla storia il suo best seller. Anzi: sembravano tutto meno che una band.

Prendendo fin troppo alla lettera i suggerimenti dell’astuto manager Bernie Rhodes, in cerca di uno scoop giornalistico capace di ravvivare le richieste dei biglietti nell’imminenza di un tour, il frontman Joe Strummer era sparito nel nulla con la compagna Gaby Salter (lo intercettarono giorni dopo nei bistrots di Parigi dove, la sera prima di correre una maratona a cui si era iscritto, si allenò tracannando 10 pinte di birra). Nel frattempo il batterista Topper Headon era già fuori dai giochi, licenziato in tronco perché risucchiato nel gorgo dell’eroina e ritenuto inaffidabile. Mick Jones, il chitarrista, era da qualche parte a rodersi il fegato, a smaltire la rabbia e a maledire i compagni che avevano bocciato senza appello la sua produzione del disco chiamando in soccorso Glyn Johns, fonico veterano degli studi di registrazione e abituato a farsi ascoltare dai Beatles, dai Led Zeppelin e dai Rolling Stones. Solo Paul Simonon, il bassista, attendeva con pazienza l’evolversi degli eventi, ingannando il tempo con la sua altra passione: la pittura.

Premesse peggiori, insomma, non era possibile immaginare. E invece quell’Lp – l’ultimo vero album dei Clash, considerando Cut The Crap una sventurata coda che in tanti preferiscono dimenticare – si trasformò in un successo mondiale. Il disco più famoso, anche se sicuramente non il più bello (come fai a paragonarlo a London Calling?), di cui Sony Music ha appena pubblicato un’edizione celebrativa expanded su doppio Cd, triplo vinile e cassetta sottotitolata The People’s Hall Special Edition. Merito, ovviamente, di Should I Stay Or Should I Go e di Rock The Casbah, i 2 smash hits che portarono i Clash in radio e su MTV conquistando definitivamente l’America amata e odiata fin dai tempi di I’m So Bored With The U.S.A. (doppio platino e 2.000.000 di copie vendute).

2 pezzi piacioni ma incontestabili: il 1°, un rock and roll elementare dal riff implacabile e con un divertente controcanto in spagnolo maccheronico cui partecipava l’amico Joe Ely, rispecchiava le ambizioni da rock star di Jones, sempre più simile a un Keith Richards anni 80 per stile, pose e atteggiamento strafottente (arrivò al N° 1 in classifica 9 anni dopo, grazie a uno spot tv della Levi’s); il 2°, un dance rock esotico frutto del talento versatile e sottovalutato del soldatino Headon, capace di assemblare da solo in studio e a tempo record una traccia base di batteria, piano e basso che lasciò a bocca aperta Strummer, lesto ad appoggiarci sopra un testo che scherzosamente evocava le censure perpetrate dal regime khomeinista nei confronti del rock and roll (contrappasso: anni dopo Joe scoppierà in lacrime, venendo a sapere che la canzone era in heavy rotation nella stazione radio delle forze armate americane mentre gli aerei a stelle e strisce sganciavano bombe sull’Iraq).

Il resto di Combat Rock, però, non era altrettanto ammiccante: nelle intenzioni, nelle ambizioni e nel risultato era quasi un concentrato di Sandinista!, ma con un suono più sporco e aggressivo; e un cosmopolitismo sempre più spinto, perfettamente colto dall’iconica foto di copertina di Pennie Smith scattata durante il recente tour nel Sud Est asiatico e in Estremo Oriente: i 4 in posa in tenuta paramilitare sui binari di una scalcagnata ferrovia in Thailandia. Roba da lasciare sconcertato il pubblico mainstream e i giovani yankee, a cominciare dal pamphlet punkeggiante di Know Your Rights: un “annuncio di interesse pubblico” (con chitarra) che mordeva come ai vecchi tempi fondendo rockabilly ed Ennio Morricone, mentre la voce rauca di Strummer enunciava ironicamente i diritti del comune cittadino di fronte alla legge (“l’assassinio è un crimine/a meno che a commetterlo non sia un poliziotto o un aristocratico”: parole attualissime, come le storie tragiche di Stefano Cucchi e George Floyd ci ricordano). Un pugno nello stomaco, roba troppo forte e indigesta per i New Romantics inglesi e per la MTV Generation che ballava il video di Rock The Casbah guardando un armadillo a spasso tra i pozzi di petrolio. E una conferma: potevano a volte essere poco lucidi e velleitari, i Clash, ma erano sempre al centro dell’azione e si spendevano senza risparmio. Cittadini del mondo inebriati dalla frequentazione dei club e dell’ambiente artistico newyorkese, testimoni attoniti e rabbiosi di un mondo dilaniato da ingiustizie e violenze, antagonisti delle reagonomics e della Lady di ferro, che proprio mentre il disco arrivava sugli scaffali chiudeva la folle guerra da operetta delle Falklands/Malvinas.

Futura 2000
Futura – The Clash (1981)

Joe, Mick e Paul si beavano della compagnia degli artisti emergenti della Grande Mela come Futura 2000, il graffitista hip-hop chiamato a dipingere fondali in diretta durante le loro mitiche esibizioni al Bonds Casino del maggio-giugno 1981 e a rappare su Overpowered By Funk tra groove funky disco, chitarre in stile Chic e un riff prepotente di basso. Dell’icona beat Allen Ginsberg, che nel dub reggae di Ghetto Defendant recitava versi citando Arthur Rimbaud e interpretando “la voce di Dio”. Di Martin Scorsese che li aveva voluti per un cameo in Re per una notte accanto a Robert De Niro, il cui monologo in Taxi Driver veniva ripreso dal road manager Kosmo Vinyl in Red Angel Dragnet, omaggio di Simonon agli Angeli Rossi, i vigilantes volontari che pattugliavano la metropolitana di New York per garantire la pubblica sicurezza. Il cinema emanava la sua fascinazione irresistibile anche in altri momenti del disco, nella colonna sonora immaginaria, romantica e decadente di Death Is A Star e in Sean Flynn: il Vietnam di Francis Ford Coppola rievocato attraverso la misteriosa vicenda del figlio di Errol Flynn, fotogiornalista catturato in Cambogia dai vietcong e mai più ritrovato (è il momento più sperimentale di Combat Rock, una piccola giungla tropicale di suoni in cui si intrecciano sax, percussioni, chitarre liquide e synth sibilanti), mentre fra gli ingorghi di una tribale Car Jamming Strummer citava Lauren Bacall, dipingendo (lì, come in Atom Tan) un vertiginoso ritratto di frenesia e nevrosi urbana.

Guerre, tossicodipendenze e miseria erano invece le preoccupazioni più che concrete dei combat rockers, che in Inoculated City denunciavano la cieca stupidità delle gerarchie militari imbastendo un pezzo in puro stile Sandinista! e in Straight To Hell calavano l’asso, una ipnotica e allucinata bossa nova in cui si succedevano immagini dolenti di fabbriche chiuse nel Nord dell’Inghilterra, di immigrati allo sbando, di bimbi vietnamiti abbandonati dai padri americani e di una nazione, l’America, in cui crescevano junkie senza speranza e senza futuro: tutti in marcia dritti all’Inferno in quello che era, e resta, un commovente (e molto originale) inno agli ultimi e agli sconfitti, sintesi perfetta della poetica e della filosofia strummeriana.

Erano quelle le 12 canzoni, registrate fra Londra e New York, sopravvissute alle decise sforbiciate con cui Glyn Johns aveva smagrito l’ambizioso progetto originale di Mick Jones, passato alla storia con il titolo di Rat Patrol From Fort Bragg, documentato più volte su bootleg e solo parzialmente riprodotto nel disco bonus della nuova special edition che include outtakes, alternate takes, lati B di singoli e altro materiale fissato in gran parte su nastro alla “People’s Hall”, una sala prove situata in un quartiere londinese popolato da squatters, attivisti e artisti locali e subito ribattezzato “Repubblica di Frestonia”: ci sono una diversa versione di Know Your Rights e Radio Clash, apice della sbornia hip-hop e newyorkese del quartetto con chitarra funk e synth drums; la sinistra First Night Back In London e lo stravagante electro-rockabilly Long Time Jerk, giustamente relegate al ruolo di b sides; qualche scampolo del confuso patchwork cucito da Jones, i colori latini di The Fulham Connection (nota anche con il titolo di The Beautiful People Are Ugly, Too) e il calypso postmoderno di Idle In Kangaroo Court, oltre a esplorazioni rap e dub di spalla a Futura 2000 e al toaster/produttore Mikey Dread, a 1 strumentale inedito (He Who Dares Or Is Tired) e a Midnight To Stevens, ballata malinconica scritta e interpretata da Strummer in omaggio Guy Stevens, il lunatico ma geniale produttore di London Calling.

Note a piè di pagina, per lo più, ma che integrano il racconto di un periodo – fine 1981/inizio 82 – in cui i Clash erano davvero la più importante rock and roll band del mondo, pronta ogni volta a rischiare e ad alzare la posta. Qualche mese dopo, il successo di Combat Rock avrebbe reso evidenti le contraddizioni e i pericoli insiti in quella crescita travolgente e nella fama planetaria: come una bella torta nuziale arrivata sul tavolo quando già gli sposi pensavano a come darsela a gambe, magari in direzioni diverse.